In un sistema democratico – caratterizzato dal pluralismo politico e dalla competizione per la conquista della maggioranza – un Governo come quello presente oggi in Italia costituisce una esperienza molto difficile per i partiti che ne fanno parte. Soprattutto perché c’è il rischio di perdere la propria identità e di cadere nell’indifferenziazione: se tutte le forze politiche che sostengono l’esecutivo appaiono nella loro comunicazione completamente d’accordo su tutto o quasi quello che il Governo decide e fa, gli elettori, che ad ogni scadenza elettorale sono gli arbitri della competizione, avranno difficoltà a scegliere fra i diversi concorrenti.

Un tempo, si sa, non era così: la grandissima maggioranza degli elettori votava sempre lo stesso partito, più come espressione di una identità personale (o di classe o categoria) che di una scelta sui programmi concreti. Qualcuno ha paragonato quel tipo di competizione politica al sostegno calcistico, dove si è sempre per la stessa squadra, senza altra base di programma da parte della propria compagine che quello, più o meno verosimile, di voler vincere il campionato. Diceva a suo tempo Alessandro Pizzorno, che la identità politica di molti cittadini si era ridotta a tifo, ancor più in mancanza di ideologie chiare. Ma questo nella situazione presente sembra vero solo in piccola parte. Oggi buona parte degli italiani cambia la propria preferenza di voto spesso e facilmente.

Questo è ciò di cui sono consapevoli i leader politici, che insistono con le loro “bandierine” a dire che anche se sostengono lo stesso governo non sono d’accordo con gli altri partiti che ne fanno parte. E con buona ragione, se teniamo conto del gran numero di indecisi sul voto (attorno al 40% secondo gli ultimi sondaggi, in grado, con le loro scelte di sovvertire potenzialmente qualsiasi previsione), e della straordinaria volatilità elettorale degli ultimi anni, che sembra avere espanso di molto il mercato potenziale di diversi partiti. Rafforzata, nei suoi effetti possibili di sovvertimento del quadro attuale, dal fatto che lo scenario elettorale si presenta oggi con ben quattro partiti il cui seguito – misurato dai sondaggi – non è molto distante: Pd, Lega, FdI e M5S non sono in questo momento separati da più di 5 punti percentuali l’uno dall’altro. Il che suggerisce che sono – in modo relativamente facile – possibili in un prossimo futuro “sorpassi” di vario genere. Come in una sorta di gara di Formula 1, con i contendenti a breve distanza l’uno dall’altro.

Si comprende dunque la necessità, pur sostenendo il Governo, di manifestare una propria identità sul mercato elettorale, alternativa a quella di altri membri della coalizione. Oggi questa esigenza è evidenziata in modo particolare da Matteo Salvini. Quest’ultimo appare in questo momento minacciato da due lati. Da un verso dal fronte dell’opposizione, occupato da Giorgia Meloni, la quale spera di ottenere presto un primato sulla Lega all’interno della futura coalizione elettorale inevitabile fra questi due partiti: oggi la distanza tra FdI e Lega è ridotta a circa tre punti percentuali, a vantaggio, per ora, del Carroccio, ma con un andamento crescente per il partito della Meloni e di severa contrazione per quello di Salvini. Certo, se il “sorpasso” avvenisse, Salvini sarebbe stimolato a iniziative clamorose, a danno, forse, della stessa stabilità del Governo.

Ma, come si è detto, il leader della Lega è minacciato anche dall’altro lato dello scenario politico, quello del Pd. Il “sorpasso” potrebbe infatti avvenire anche ad opera di quest’ultimo (anche in questo caso la distanza in termini di consenso è inferiore ai 3 punti): alcuni osservatori, nei giorni scorsi, hanno ipotizzato proprio questa eventualità. Che si concretizzerebbe se riuscisse, almeno in parte, il tentativo del nuovo segretario del Pd, Enrico Letta, di arrivare al prossimo rinnovo del Parlamento come capo di una larga coalizione di tutti quelli che non si identificano con un governo per il paese di destra nazionalista. Salvini, peraltro, non può uscire dalla maggioranza poiché ha già visto come è andata a finire la volta scorsa: la maggioranza in Parlamento si è trovata e si coesa contro di lui, con conseguente declino del suo partito nei sondaggi. Il segretario della Lega sa bene che errare humanum est, perseverare diabolicum, ed ha imparato che, in certe circostanze, è bene non esagerare nel demonizzare gli altri attori politici.

Restando al governo, Salvini prende anche lui un rischio calcolato. Infatti, se, come è sperabile e probabilmente verosimile, il governo Draghi avrà successo nel battere la pandemia e nel rilanciare l’economia, questi risultati saranno a favore dei partiti che hanno sostenuto il l’esecutivo. E l’opposizione (in concreto FdI) sarà rimasta con un pugno di mosche in mano. Ma Salvini deve evitare al tempo stesso che il partito della Meloni possa dire (come si fa spessissimo in Italia): ormai siete come gli altri, con la sinistra ed i banchieri. Deve dunque provare ad intestarsi i provvedimenti che hanno successo, ma anche cercare di apparire, come è nei fatti, diverso dallo schieramento che sarà suo avversario alle elezioni, quello di Letta. Per quest’ultimo si manifestano in parte problemi simili. Da una parte non può lasciare Salvini assumere come propri i possibili successi del governo Draghi: per questo rivendica spesso al suo partito il ruolo di principale sostegno del medesimo. Dall’altra, pur infastidito comprensibilmente dall’atteggiamento di Salvini (definito un po’ in fretta di lotta e di governo – poiché sta ora certamente nel governo, ma lotta per le future elezioni), non è in grado di assumere lo stesso modo di comunicare, un po’ per responsabilità, un po’ perché non è il suo stile e soprattutto perché ha un’altra difficile gatta da pelare. Non di tratta in questo caso di un competitor esterno alla coalizione (un equivalente di Meloni all’estrema sinistra), ma del lavoro necessario a mettere in piedi quella che chiama “la piazza grande”.

Qui il segretario del Pd incontra a sua volta due difficoltà: una interna al partito, l’altra relativa alla alleanza necessaria con la nuova formazione politica che Conte (che, pur essendo lontano dalle apparizioni quotidiane sugli schermi televisivi, continua a godere di una vasta popolarità, seconda solo a quella di Draghi) sta cercando di mettere in piedi. Di quest’ultima abbiamo già parlato su questo giornale. Ormai non sembrano più possibili terzi poli (a meno che non se ne faccia uno piccolo di centro, ma è molto improbabile che Conte arrivi a schierarsi con Calenda). L’ex Presidente del Consiglio, forse obtorto collo, dovrà dunque allearsi con il Pd, vuoi nei collegi uninominali della legge Rosato, vuoi nella coalizione che potrebbe diventare maggioranza parlamentare grazie ad un premio in seggi, se mai dovesse passare una nuova legge elettorale di questo tipo.

Sul fronte interno al suo partito, il problema per Letta è che dovrà tenere insieme tutto il Pd in uno – chiamiamolo variegato – schieramento che comprende anche necessariamente la vecchia “ditta”, con i suoi intellettuali più o meno organici (da Zagrebelsky a molti altri minori che oggi lamentano il fatto che vi sia un ex banchiere a Palazzo Chigi e che si erano ferocemente opposti alla riforma del PD di Renzi nel 2016). La difficoltà, naturalmente, sta nel tenere costoro assieme ai sostenitori di quella stagione delle riforme, i quali in gran numero sono rimasti dentro il PD. Letta predica pace nel suo campo di Agramante: ma il suo “volemose bene”, certo necessario, potrebbe non essere sufficiente. Quanto illustrato sin qui suggerisce dunque come la lotta per le bandierine sia destinata a continuare. La competizione per il primato dei consensi è oggi serratissima.

Draghi non se ne cura e fa bene. Lui non è candidato. Il suo non è un Governo a favore di una parte della nazione in contrapposizione all’altra, alla ricerca di una vittoria elettorale. È un esecutivo pensato per il bene possibile dell’intero paese, come erano quelli immaginati dai padri fondatori del moderno governo rappresentativo che non conoscevano (Sieyes) o non amavano (Madison) i partiti politici. Draghi peraltro non è nemmeno un dittatore romano chiamato per sei mesi a salvare la Respublica dai nemici di dentro e di fuori (una sedizione della plebe o un Hannibal ante portas). Egli è il primo ministro di un Governo parlamentare che agisce in virtù della fiducia del Parlamento (in questo caso espressa da una larghissima maggioranza) e responsabile dinanzi a quest’ultimo, come in ogni sistema parlamentare.

Il governo esiste e resiste perché la classe politica eletta dai cittadini si è resa conto di essere incapace, per ora, di governare il paese e si è decisa a sostenere una personalità esterna di cui si fida. Per le sue competenze, per la sua reputazione internazionale, per l’equilibrio che sta mostrando in questa doppia crisi profonda per l’Italia: sanitaria ed economica. Si è passati in fretta e per fortuna da “uno vale uno”, che va benissimo per i diritti e dinanzi alla legge, a “ci vuole, al governo, uno migliore, più capace di altri”. Non a caso, la popolarità di Draghi si è accresciuta, proprio in queste ultime settimane. De profundis per il populismo.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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