Nella politica italiana dei prossimi 12 mesi – al di là della gestione della epidemia che, anche se con il ritardo dovuto alle case farmaceutiche e la relativa disorganizzazione nella somministrazione del vaccino, sarà sperabilmente superata, e del Def (di 180 pagine) deliberato ieri in consiglio dei ministri – arriveranno non uno solo, ma due convitati di pietra. Due scadenze di grande importanza. Le elezioni comunali che riguardano fra l’altro cinque grandi città, compresa la capitale politica e quella economica del paese, e le elezioni del Presidente della Repubblica. Sul primo evento sarà il caso di tornare più dettagliatamente quando saranno noti i candidati dei partiti (e/o delle alleanze).

Per ora, i primi sondaggi registrano qualche difficoltà per il centrosinistra. A Roma, dove una recente indagine di Roberto D’Alimonte mostra come, allo stato attuale, sia possibile uno scenario che vede l’attuale sindaco Raggi superare il primo turno ma poi essere sconfitta dal centrodestra al secondo. E a Milano, ove il centrodestra preme sull’ex sindaco Albertini perché si ripresenti e un sondaggio Eumetra sembra profilare la possibilità di una vittoria di quest’ultimo sul sindaco uscente Sala. Nel caso delle elezioni del Presidente, invece, non vi sono candidati, ma solo eletti. E la decisione viene presa dal Parlamento allargato, con risultati che, come dimostrano le esperienze passate, sono quasi sempre imprevedibili. Oggi però molti osservatori avanzano il nome di Mario Draghi per quella carica. E la cosa non sorprende. La reputazione nazionale e internazionale dell’attuale Presidente del Consiglio depone interamente a suo favore.

Il Quirinale è certamente il più bel palazzo presidenziale del mondo, senza confronto possibile con Palazzo Chigi. Ma nonostante questo il paese si governa da Palazzo Chigi e non dal Colle e l’Italia non è la Francia. Al Consiglio europeo, per quanto ci riguarda, ci va il Capo del Governo non il Capo dello Stato. I poteri “a fisarmonica” di quest’ultimo non si estendono oltre il ruolo che egli/ella può svolgere nelle crisi e alla moral suasion nei confronti dei rappresentanti eletti. In base al dettato costituzionale, il Presidente nomina il Capo del Governo e ha la possibilità di far conoscere la sua opinione sui ministri proposti da questo, ma deve tener conto necessariamente della volontà dei partiti che votano la fiducia. Il Presidente della Repubblica non può però promuovere e gestire le riforme economiche e istituzionali di cui l’Italia ha assoluto bisogno. Draghi al Colle servirebbe soprattutto alla Lega, se questa dovesse vincere le elezioni fra due anni. Come cauzione per un Governo europeista-sovranista (sic), come sembra oggi nelle alleanze delle maggiori forze della destra italiana a livello dell’UE.

Draghi a Palazzo Chigi almeno fino alla fine della legislatura sarebbe invece un servizio per tutto il paese: il suo governo avrebbe già una durata superiore alla media degli esecutivi italiani e permetterebbe di proseguire il commissariamento attuale dei partiti politici che oggi lo sostengono sperando che lasci libero il posto al più presto. Il Quirinale sarebbe viceversa per Draghi una versione con Palazzo e giardino dell’adagio promoveatur ut amoveatur!
Si obietterà che restando a Chigi invece di andare fra un anno al Quirinale, Draghi correrebbe il rischio per così dire di andare in pensione dalla scena politica italiana alla fine della legislatura attuale. Un ragionamento su questo tema è inevitabilmente un azzardo. Ma può avere lo stesso un senso. Certo non si conoscono le intenzioni di Draghi, ma indizi crescenti possono accreditare l’idea che prenda in considerazione l’opportunità di rimanere ancora attivamente sullo scenario politico. Oltretutto, per quanto se ne dica, non si sa nemmeno che cosa potrà accadere alle elezioni del marzo 2023. I sondaggi, come sanno benissimo coloro che si occupano di questo importante strumento di conoscenza della vita politica, sono une fotografia più o meno precisa del presente: nessun ricercatore serio può dire di sapere oggi quale sarà il comportamento degli elettori fra due anni. Sarà necessario nel migliore dei casi attendere i dati di qualche settimana prima delle elezioni.

Si consideri che il nostro sistema politico, terremotato dalle elezioni del 2018, ha continuato sin qui a mutare rapidamente e potrebbe farlo ancor più in futuro. Il M5S, il primo partito alle ultime elezioni, ha dimezzato, oggi, il suo valore sul mercato delle intenzioni di voto. Anzi, per quel poco che se ne sa ora, non rassomiglia nemmeno più a quello delle vittorie del 13 e del 18. Nuovo leader, nuovissime relazioni con l’Ue (dove però è ancora alla ricerca di una casa), e navigazione più esplicita verso il centro dello schieramento politico, un centro ancora abbastanza privo di contenuti, se non quelli conclamati dell’attenzione particolare alla sostenibilità e all’ambiente, ma inevitabilmente più istituzionale e decisamente meno descamisado, protestatario e filo gilets jaunes.

La Lega, di nuovo piuttosto Nord che nazionale, è passata in tre anni dal 17% al 34% e oggi si colloca (nei sondaggi) attorno al 22%. Rimane il primo partito italiano, ma appare in difficoltà nel manifestare la sua identità. Il Pd, con la segreteria di Letta, cambia volto, pur continuando ad essere dilaniato dai conflitti interni: vedremo nei prossimi mesi che rapporti potrà stabilire con il partito di Conte e con i gruppi che hanno lasciato il partito diretto da Zingaretti. In sostanza, per ora siamo ben lontani dal sapere come si presenterà al corpo elettorale l’offerta politica e chi ne risulterà vincente e nemmeno se, con la legge elettorale in vigore, ve ne sarà chiaramente uno. Se la coalizione di destra non dovesse risultare vincente, Draghi sembra il miglior candidato a dirigere un altro governo. Lui non avrà bisogno di creare come Monti e Conte un suo partito. Potrebbe essere nuovamente chiamato a dirigere il Governo da chi penserà di non poter far meglio di lui.

In aggiunta (o, dal suo punto di vista, in alternativa) non bisogna dimenticare il quadro europeo che costituisce l’ottica dalla quale correttamente Draghi guarda alla situazione italiana. Tra l’autunno di quest’anno e la primavera del 2022 ci saranno le elezioni in Germania per il Parlamento federale e in Francia per il Presidente e per l’Assemblea Nazionale. Le forze nazionaliste dell’Unione sperano in una vittoria di Le Pen in Francia e di Söder in Germania. Ma il cancelliere tedesco potrebbe essere il delfino di Merkel, Armin Laschet, e Macron potrebbe eccezionalmente ormai in Francia essere rieletto. Il volto dell’Unione non sarà dunque chiaro prima di un anno. Sappiamo solo che non ci sarà più Angela Merkel.

Nelle cancellerie europee nessuno dubita che Draghi svolgerà un ruolo decisivo in seno all’Unione Europea del dopo Covid e del dopo Merkel. Da Palazzo Chigi o dalla sede della Commissione europea a Bruxelles. Se il risultato delle elezioni italiane del 2023 non significasse per lui una nuova chiamata a dirigere il governo a Roma, nel 2024 si libera il posto di presidente della Commissione.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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