Ha due sfide da portare a casa Mario Draghi: portare l’Italia fuori dalla pandemia e finalizzare il Recovery Plan, dimostrare all’Europa che siamo capaci di spendere bene quel debito comune europeo facendo investimenti strutturali. Di questo, solo di questo si occupa nelle lunghe giornate passate nello studio a palazzo Chigi. Non c’è il consenso tra le sfide che lo hanno convinto ad accettare l’incarico. Non si cura, quindi, dei sondaggi, che vedono il suo gradimento scemare (secondo Euromedia research in due mesi è passato dal 63,8% al 52%).

Gli elettori di centrodestra non vedono quel “cambio di passo” che si aspettavano, da qui le voci sulla rimozione del ministro Speranza visto come l’uomo delle “chiusure a oltranza senza progetti per la ripresa”. Prima erano 3-4 i rigoristi al governo, Speranza, Franceschini, Boccia e Conte e a ruota i 5 Stelle. Oggi è rimasto solo Speranza e su di lui si scaricano pressioni e richieste, spesso utili alibi per promesse impossibili. Della serie apriamo oggi, anzi ieri come va dicendo Salvini. Tra gli elettori di centrosinistra (Pd, M5s e Leu) ci sono molte delle cosiddette “vedove di Conte” per cui tutto sommato “non sarebbe così male se Draghi non facesse così bene come si pensava”. Magari si va anche a votare appena possibile, cioè a marzo 2022, confermando che i governi tecnici – che arrivano perché la politica non è in grado di fare – sono destinati a sopravvivere per non più di dodici-tredici mesi.

Tutto questo Draghi lo aveva messo in conto. Da qui la squadra mista, tecnici e politici, che anima il suo governo. Se poi in questo Paese dovesse fallire anche l’uomo che da Francoforte ha saputo salvare l’euro e l’Italia, non ci saranno alibi e i responsabili saranno additati per tempo con nome, cognome e capo d’imputazione. Quindi Draghi va avanti nelle sue sfide. Facendo il massimo sforzo di sintesi e mediazione. Fino all’ultimo metro disponibile. Così ieri il premier – è bene ricordare che a metà febbraio, quando è arrivato a palazzo Chigi, non c’era neppure il Piano vaccini e quel poco che c’era ha provocato i ritardi nella messa in sicurezza di anziani e fragili – ha risolto a modo suo la tarantella, anche mediatica, sui vaccini sì-no-forse e a metà pomeriggio ha comunicato l’arrivo in Italia di 7 milioni di dosi Pfizer in questo trimestre. Washington certifica la sua ritrovata partnership privilegiata con la vecchia Europa in ritardo sulle vaccinazioni inviando 50 milioni di dosi. Sette toccano all’Italia.

È una notizia che sgombera il campo dai dubbi e dalle speculazioni su Astrazeneca e J&J. Il generale Figliuolo è molto soddisfatto: «Per l’Italia vuol dire 670.000 dosi in più ad aprile, 2 milioni e 150.000 dosi in più a maggio e oltre 4 milioni di dosi in più a giugno. Finalmente una bella notizia. Il piano va avanti così come l’avevo strutturato, per questo sono davvero contento. Con l’afflusso massiccio di dosi vaccinali il paese riapre e se ne esce più forte di prima». Fatta la scorta di vaccini, Draghi ha ricevuto a palazzo Chigi Brusaferro e Locatelli per fare un’analisi dei contagi e delle vaccinazioni e procedere poi con un elenco delle aperture. Entro la prossima settimana. Fin qui la sfida alla pandemia.

In parallelo Draghi sta portando avanti l’altra sfida, quella sul Pnrr. L’embargo mediatico richiesto ai vari ministeri sta funzionando. Dunque non girano bozze e pizzini vari. La scorsa settimana – era giovedì – il premier ha incontrato sindaci e governatori e ha spiegato loro quale sarà la governance. Palazzo Chigi e Mef avranno il compito di stabilire le priorità tra i vari progetti e deciderne la compatibilità con le mission del Recovery plan europeo “dopo aver ascoltato i vari soggetti istituzionali”, dai vari ministeri alle regioni passando per i comuni. La Cabina di regia è al Mef, dove si è insediata già a fine febbraio, avrà la funzione di monitoraggio e coordinamento e supporto alle strutture locali e avrà tre teste: Draghi, il ministro Franco e Carmine di Nuzzo, ex capo della ragioneria dello Stato, che guiderà l’Unità di missione. Da qui partiranno le richieste di finanziamento da inviare a Bruxelles e sempre qui arriveranno, su un conto corrente dedicato, i fondi che saranno subito girati a chi dovrà spenderli, cioè Comuni e Regioni. Che saranno aiutate da apposite task force di tecnici inviati sul posto se e qualora ce ne fosse bisogno. Insomma, Regioni e Comuni saranno esecutori di progetti proposti da loro ma su cui l’ultima parola sarà del Mef e della cabina di regia. In sostanza tutti coinvolti, nessun livello dell’amministrazione centrale e locale è escluso tranne che sulla selezione finale dei progetti da finanziare.

E qui casca l’asino. Oggi come nel Conte 2 le richieste arrivate a palazzo Chigi superano il budget della quota di Recovery fund italiano di circa 130 miliardi (oltre ai 190 miliardi previsti). Qualcuno lo chiama il “marchettificio” di sindaci e governatori che con oltre mille comuni al voto in autunno avranno orecchie e antenne per intercettare e rivendere al mercato del consenso anche il rifacimento di un tombino. Per altri, con più nobili pensieri, sono “opere pubbliche necessarie al territorio”: dagli 800 milioni richiesti dalla Puglia per “l’uso irriguo dell’acqua” ai 130 milioni per l’aeroporto di Grottaglie; dalla superstrada a quattro corsie Rieti-Torano al Centro di produzione cinematografica da realizzare a Termini Imerese. Ci sono centinaia di progetti di questo tipo nelle 700 pagine più allegati del Pnrr. Belli, interessanti, smart. C’è un unico problema: non sono compatibili con le mission del Pnrr italiano. Dunque non potranno stare lì dentro.

Draghi su questo punto è stato molto chiaro. Ne va della riuscita stessa del Piano con cui, è stato detto tante volte, l’Italia si gioca la sua ultima occasione di diventare un paese moderno che sa crescere e sconfiggere la burocrazia. Per essere ancora più chiaro da oggi fino a lunedì compreso avrà incontri ravvicinati con tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione. Si comincia oggi con Lega e 5 Stelle, domani Forza Italia e Pd, venerdì Fdi e Italia viva. Due turni, sempre lo stesso orario: 17 e 18 e 30. Oggetto degli incontri come usare i 40 miliardi del nuovo scostamento di bilancio deciso ieri dal Cdm e patti chiari sulla gestione del Pnrr e sulla lista delle opere. Il Parlamento leggerà il piano e lo valuterà ma il 30 aprile dovrà essere spedito a Bruxelles. Il Pnrr è un po’ come i vaccini: su entrambi il premier chiede fiducia ed è pronto a metterci la faccia e la sua stessa reputazione.

Draghi però capisce che ogni territorio ha esigenze specifiche, che c’è una campagna elettorale alle porte e che il Parlamento deve poter esercitare il proprio ruolo. Da qui una nuova linea di credito finanziata con il nuovo deficit e destinata alle opere pubbliche che non possono essere comprese nel Pnrr. Così, una fetta dei 40 miliardi previsti nel decreto Sostegni 2, sarà destinata alla realizzazione di progetti e opere indicati da sindaci e governatori. Sarà responsabilità dei parlamentari dimostrare di saper gestire questi danari e realizzare questi progetti. Sarà il Parlamento a dire quali potranno andare avanti e quali no. Draghi spazza via ogni alibi. Il suo governo ci mette i soldi. Sarà la politica a dimostrare di essere o meno capace di saperli usare.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.