Quando parliamo dei repubblicani americani in genere pensiamo a un partito di destra, ora reazionario e quasi fascista, in altri momenti un partito conservatore moderatissimo, ma comunque sempre un soggetto politico bellicoso, votato dai ricchi e detestato dai poveri Quando andai a vivere in America un quarto di secolo fa, ero pieno dei pregiudizi che un giornalista italiano di sinistra si porta dietro sia quando affronta per la prima volta il Medio Oriente o l’America Latina. Non mi ci volle molto per scoprire che il Partito repubblicano creato da Abraham Lincoln per contrastare i poteri forti e schiavisti del Partito democratico, nacque come movimento degli uomini liberi in un’epoca in cui i democratici rappresentavano quanto di più conservatore e razzista potesse esserci.

Di fatto, la guerra civile americana fu un martoriato regolamento di conti con mezzo milione di morti e un milione di mutilati tra repubblicani e democratici, in cui i buoni dell’happy end furono i repubblicani che vinsero i confederati democratici che poi praticarono la segregazione razziale. Per questo i democratici Kennedy e Johnson dedicarono una stagione della loro storia a rimediare all’onta del loro partito che era anche quello del Ku-Klux-Klan. Quando Berlusconi dice di voler creare in Italia un partito repubblicano insieme a tutte le forze di centrodestra “che ci stanno”, sa di dire qualcosa di impegnativo perché il modello repubblicano non è quello di un partito unificato ma di una federazione di club, think-tank, riviste e giornali, siti e luoghi di discussione che esprimono una gamma di opinioni per lo più da noi del tutto sconosciute come quelle dei “libertarian”, quel tipo di personaggi che nei film si dondolano sotto il portico avendo a portata di mano chitarra e fucile e che se vedono un federale al cancello della loro proprietà senza un mandato, gli sparano.

Questa naturalmente è una semplificazione estrema di una venatura che da noi manca che è quella del rifiuto a prescindere dell’onnipotenza statale che vorrebbe dirti tutto ciò che devi fare, pensare, studiare, insegnare, imparare e dettarti regole su regole. Ma quella è l’America. Noi siamo l’Italia dove la materia prima è totalmente diversa e sarebbe uno spreco di spazio fare il semplice elenco delle diversità. Dov’è allora l’aspetto utile del modello Gop? Nel mantenimento rigoroso delle identità diverse e distinte che compongono il Grand Old party dove è sempre ardente la brace della compartizione, ideologica, economica e fiscale tra conservatori-progressisti (gli ossimori da quelle parti vanno forte) e tutte le componenti etniche nazionali e razziali che sono centinaia.

Da noi, le componenti della nascente Confederazione di tipo repubblicano sono forze profondamente diverse: distinte e distanti tra loro, come Forza Italia, la Lega di Salvini, l’Udc alleato moderato. Quale sarebbe il più prezioso traguardo realistico? L’effetto moltiplicatore: se metti insieme tanti partiti, li chiudi in una scatola e li presenti all’elettorato, sappiamo che la somma dei componenti è inferiore a quella dei singoli addendi. C’è sempre chi se ne va dichiarandosi più puro degli altri portandosi via il sacro Graal della identità distrutta. Ma una Confederazione di tipo repubblicano supera questo scoglio perché è in grado di permettere e anzi esaltare le differenze nello stesso momento in cui accogliere e promuove l’unità d’azione. Negli anni lontani del “frontismo” italiano l’unificazione che rendeva indistinguibili permise al più piccolo Partito comunista di assimilare l’elettorato socialista, assumendo le dimensioni che poi seppe mantenere fino alla fine della guerra fredda.

Questo è ciò che va evitato: la semi-unificazione che prelude all’assimilazione. Ma non basta dirlo, bisogna compiere degli atti e mandare segnali che dicano all’elettore che il nuovo soggetto e più ricco, libero, duttile e accogliente dei singoli componenti, perché solo così si può ottenere la moltiplicazione anziché la sottrazione e testare il prodotto finale. Questo significa che la frazione più piccola ora della coalizione, quella di Forza Italia con il patrimonio genetico liberale dei partiti della prima Repubblica, deve aumentare la propria visibilità anziché renderla opaca, esaltarla e rivendicarla anziché adottare slogan affinché Matteo Salvini comprenda che l’era muscolare ha fatto il suo tempo e che è ora di adottare una posizione liberale. Salvini potrebbe rifiutare in nome dell’identità del suo partito e questo rientrerebbe nelle sue prerogative. Chi deve assolutamente mantenere vivo il grumo genetico da cui proviene è Forza Italia perché se sacrificasse il patrimonio genetico, alla fine dell’operazione non uscirebbe un partito liberale di destra ma una creatura Frankenstein dalla vita breve, col rimpianto dell’occasione sprecata.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.