Tra le mostre presenti quest’anno al Meeting di Rimini ce n’è una dedicata a Charles Péguy, il grande scrittore francese celebre per i suoi “Misteri” sulle virtù cristiane, la carità e la speranza, conosciuto in Italia per le traduzioni che ne fece la Jaca Book e per l’insistenza con cui don Luigi Giussani – il fondatore di Comunione e Liberazione – lo proponeva ai suoi studenti. La mostra ha un titolo strano, “La grande inquietudine. Péguy e la città armoniosa”. Ne chiediamo conto al curatore, Ubaldo Casotto, già vicedirettore del Foglio e di questo giornale, oggi direttore scientifico della fondazione costruiamo il futuro, promotrice della mostra.

Perché Péguy e perché questo titolo?
«Péguy va bene sempre, in più quest’anno cade il 150° della sua nascita e l’occasione era ghiotta per esplorare un terreno meno conosciuto della sua opera e della sua vita, il suo impegno sociale e politico. A 150 anni dalla sua nascita (1873) questo francese irrequieto ci offre la testimonianza di che cosa voglia dire vivere in una fase di “cambiamento d’epoca” senza rinunciare a essere protagonisti del proprio tempo».

Si spieghi.
«Papa Francesco definisce significativamente la nostra “non un’epoca di cambiamento” ma una fase di “cambiamento d’epoca”, caratterizzata non solo dal passaggio da un’economia industriale a una digitale, con tutte le conseguenze nella vita dei singoli e dei popoli che questo comporta, ma soprattutto dal venir meno di certezze morali e valori culturali che non vengono più riconosciuti come tali».

Qual è il parallelo?
«Péguy ha vissuto una situazione identica, a cavallo tra ‘800 e ‘900. Diceva infatti: “Il mondo è cambiato nell’ultimo decennio più di quanto sia cambiato dopo Gesù Cristo”. Erano gli anni del passaggio della Francia da un’economia contadina e artigiana a quella industriale e nell’inizio del processo di scristianizzazione a favore di una cultura e di una ideologia del progresso che ha eroso l’esperienza di popolo, tagliando i ponti non solo con la tradizione cattolica ma anche con il lascito culturale e di civiltà che la storia consegna a ogni generazione. È quello che Péguy chiama l’avvento del “mondo moderno”».

“Città armoniosa” sa molto di socialismo utopico”.
«È il titolo di un suo libro del periodo socialista e ateo, prima del ritorno alla fede. Un titolo bellissimo, che non conduce a un programma politico, parola che Pèguy disprezzava, piuttosto un’idea che percorre, come un fil rouge tutta la sua vita, il suo pensiero, il suo impegno politico e la sua attività editoriale. Noi (con me ha lavorato un gruppo di universitari e di giovani lavoratori) l’abbiamo seguito scavando un percorso che della città armoniosa ritrova le fondamenta».

Una mostra sul pensiero sociale di Péguy come può interessare oggi?
«Più che un’analisi del suo pensiero sociale, inevitabilmente datato soprattutto nelle sue proiezioni utopiche, abbiamo voluto riproporre la forza delle domande che pone, dei problemi che evidenzia, l’urto dello scandalo che può provocare, della speranza che trasmette. Perché, come dice lui stesso, ma non parlava di sé, “una grande filosofia non è quella che pronuncia giudizi definitivi… è quella che introduce un’inquietudine, che suscita uno scossone”».

Che cosa vedremo in mostra?
«Sei enormi Cahiers, i suoi “Cahiers de la Quinzaine”, alti tre metri, in cui si parla di miseria, di esclusi, di giustizia a partire dal famoso caso Dreyfus di cui Péguy fu strenuo difensore, di lavoro ben fatto, della differenza tra il i denaro e il valore, di ideologie e di “avvenimento”, la categoria che fa di Péguy il più grande realista e forse il cristiano più intelligente del ‘900».

Non sta esagerando?
«L’ha detto Von Balthasar: “Non si è mai parlato così cristiano”».

Tutto ciò cose come viene presentato?
«Ogni cahier ha tre sezioni: la prima sotto forma di intervista a Péguy, con domande poste oggi e risposte rigorosamente sue; la seconda con dati del Censis che documentano l’attualità delle questioni che pone (i numeri sulla giustizia in Italia sono impressionanti); la terza con testimonianze di realtà che tentano oggi una risposta alla problematica trattata».

Sul lavoro ben fatto che cosa c’è?
«Una famosa frase di Péguy che dice che il lavoro va fatto bene non per il salario o per il riconoscimento sociale, ma in sé è per sé, è una questione di dignità del lavoratore. E fa l’esempio di un artigiano che fa una sedia curandola anche nei particolari nascosti. Non gliela anticipo, la troverà in mostra. L’ho fatta leggere ai ragazzi di Aslam, una realtà che si occupa di formazione professionale e hanno costruito una sedia di design alta due metri e mezzo, ma da artigiani del Duemila, con il meglio della tecnologia, con macchine a controllo alfanumerico. Il loro lavoro, dalla progettazione all’assemblaggio è documentato da un video. Le facce di queste ragazze e di questi ragazzi dicono di più di qualsiasi discorso del più bravo degli economisti sul senso del lavoro».

Non mi ha ancora spiegato il titolo.
«Lo si capisce nel video finale, nel quale Benedetto XVI parla dell’inquietudine dei giovani come del motore del cambiamento della società e della storia. Péguy, d’altronde, definì l’uomo un “pozzo di inquietudine”, la città armoniosa ha qui il suo segreto».