Quando scriviamo giustizia dobbiamo usare la maiuscola o la minuscola? Questa domanda, antica e moderna, resta sempre cruciale: la maschera giuridica viene di volta in volta usata come grimaldello per distruggere l’avversario di turno o quale trama tesa a ricostruire le vicende della storia contemporanea. Ma non ci vuole un filosofo del diritto per scindere il lavoro che si svolge nei tribunali da quello che avviene all’interno della coscienza di ognuno. Senza nemmeno aprire, perché ci porterebbe troppo lontano, il libro sacro delle devozioni. Cosa rappresentano le carte processuali, al di là della loro possibile strumentalizzazione? In ultima analisi e nel migliore dei casi indicano la buona intenzione umana tesa al superamento dei conflitti. A ben riflettere: un modo commovente di sistemare le cose. Chi cerchi la verità, credendo sia possibile lasciarsi alle spalle la mediazione e il compromesso, forse dovrebbe dirigersi verso l’altro mondo a cui lo spinge la saggezza popolare.

Tale visione amara e sconsolata guidò la poetica di Friedrich Dürrenmatt, scomparso a Neuchâtel nel 1990. In particolare La promessa, riedito da Adelphi in una nuova traduzione di Donata Berra (pp.162, 15 euro) esprime, come meglio non si potrebbe, lo scetticismo e il disincanto del grande scrittore svizzero che, non senza malizia, sottotitolò questo libro, pubblicato nel 1958, Requiem per il romanzo poliziesco.

Il nucleo tematico prende lo spunto da uno dei più brillanti investigatori di Zurigo, Matthäi. Personaggio indimenticabile di caparbia volontà propositiva. Chi, come lui, non si arrende all’evidenza e vuole scoprire i segreti più reconditi, è destinato a fare una brutta fine. L’esperto poliziotto aveva capito che non era stato l’ambulante von Gunten a uccidere la piccola Gritli Moser, bensì un uomo rimasto sconosciuto: la bambina lo aveva persino disegnato sul quaderno. Tuttavia, soprattutto quando l’accusato si era impiccato, nessuno aveva creduto alle fantasie di Matthäi. Gli stessi suoi colleghi lo avevano messo da parte alla maniera di un arnese inservibile. Il vecchio commissario, per mantenere la promessa fatta ai genitori della povera vittima, secondo cui prima o poi sarebbe riuscito ad arrestare il responsabile, aveva continuato le indagini da solo, arrivando al punto di comprare una stazione di benzina, stabilirsi lì e fingere di essere un semplice pensionato. Il tempo trascorse. Nel tentativo di attirare l’omicida nella trappola, il cocciuto agente non si fece scrupolo di usare come esca un’altra bambina. Il suo progetto si stava realizzando ma un incidente stradale causò la morte del vero colpevole e tutto restò nell’ombra. L’immagine finale di Matthäifarneticante, in preda al delirio senile, chiude il magnifico film che nel 2001 Sean Penn ricavò da quest’opera. È stata l’ultima straordinaria interpretazione di Jack Nicholson.

In realtà le pagine conclusive del romanzo rivelano l’identità dell’assassino seriale, un mentecatto protetto dall’anziana moglie, finita anche lei all’ospizio. È come se lo scrittore, narrando l’estrema quasi inconsapevole confessione dell’anziana svanita, ci consegnasse lo scrutinio fallimentare di ogni tentativo di fare luce e chiarezza nel fondo oscuro dell’animo umano. Con tutta la nostra buona volontà, non arriveremo mai a chiudere la pratica. Resterà sempre un assurdo col quale fare i conti, una ferita da accettare, l’enigma irrisolvibile. Sembra quasi che Friedrich Dürrenmatt inizi a ragionare là dove Luigi Pirandello aveva terminato.

Ancora oggi, rileggendo questo testo di stringata efficacia, si apprezza la magnifica resa degli ambienti provinciali elvetici, chiusi nella difesa della loro presunta autonomia: in questo senso la figura dell’anziano detective, la cui perspicacia non serve più a nulla, illustra con splendida persuasione stilistica l’inganno a cui sarebbero destinati tutti coloro che volessero ricavare dai propri sistemi logici un’interpretazione plausibile di ciò che accade: “La nostra ragione getta una luce insufficiente sul mondo”.