Ieri ho preso dallo scaffale il libro più bello che sia mai stato scritto sulla morte: La morte di Ivan Il’ič (1886) di Tolstoj. Un racconto lungo, o romanzo breve, di straordinaria concentrazione e tensione (per gli amanti del pop, è il libro che in una puntata dei Simpson Lisa acquista in libreria). Ripassiamone la trama. Ivan Il’ič è un membro della Corte d’Appello, con un potere immenso (può mandare in rovina qualsiasi persona). Sposato con due figli, ha ottenuto da poco un’importante promozione e decide così di trasferirsi con la famiglia a San Pietroburgo, in una casa che lui personalmente vorrà arredare con oggetti di lusso presi qua e là. Di carattere gioviale, magistrato equilibrato, buon giocatore di carte, dal giorno della laurea studia da alto funzionario: «il suo dovere era tutto ciò che le persone altolocate ritenevano tale». Con la moglie, capricciosa, nevrotica, ha rapporti burrascosi, ma tutto si ricompone nel tran-tran quotidiano. I figli restano sullo sfondo.

Un giorno, per fare una banale manovra fisica in casa, urta con l’anca uno spigolo. Da quel momento si insinua in lui un dolore sordo, logorante, persistente, ineliminabile. Tutto precipita in poche settimane (ha 45 anni). Scopre di avere un cancro all’intestino cieco (anche se Tolstoj non ci dice mai qual è la malattia). I medici minimizzano, così come gli amici, annoiati dal suo perdurante malessere e dai suoi continui lamenti. Viene poco a poco invaso dal terrore. Sa bene che gli uomini sono mortali, ma lui, chissà perché, in fondo era convinto di esserne esentato, con i suoi indelebili ricordi di infanzia, i suoi giocattoli, l’odore della palla di cuoio, i dolci, il bacio alla mano della mamma… Com’è possibile che tutto ciò svanisca?

Qui Tolstoj ci ricorda che nessuno riesce davvero a immaginarsi la propria morte: la vita non capisce la morte, le resta estranea. Poi conclude che se c’è la morte – come unico fatto reale, e essa è “la sola verità” – allora tutto il resto sparisce, si svuota, si delegittima, viene ridotto a ricordo o a illusione. Poi ancora di fronte a quell’evento, indubitabilmente certo, Ivan Il’ič, chiamato vezzosamente Jean dalla moglie, passa in rassegna la propria esistenza e la scopre fondata sulla menzogna, sull’ipocrisia, su false sicurezze. Interamente “fuori strada”.
Il terrore della morte è il terrore di una vita vissuta come già morta, vissuta come assurdo e nonsenso. Non sopporta la vicinanza di nessuno, tranne che del giovane servo, il mugik Gherasim – schietto, servizievole, dotato di brio della vita e semplice pietas -, che gli sorregge le gambe dandogli sollievo. Quell’azione spontanea, gratuita, di carità individuale – fatta non perché Ivan Ilic è il suo padrone, ma perché è un essere malato, morente e come tutti dovrà morire – non potrà essere verosimilmente sostituita in nessuna società ideale dal più efficiente Welfare.

Prima di morire, dopo giorni di grida, di dolori atroci (che faranno dubitare della esistenza di Dio) Ivan Ilic proprio negli ultimi istanti avrà come un momento di luce – «in fondo al buio si illuminò qualcosa» – nel quale la morte stessa si è ritirata: sorprendentemente “non c’è più”.
Cosa ricavare oggi dal racconto di Tolstoj? I suoi significati sono inesauribili. Mi limito solo a un paio di sottolineature. Da una parte c’è la denuncia del cinismo, dell’indifferenza generalizzata. Il racconto si apre quando tutto è già successo. Arriva la notizia della morte di Ivan Il’ič: la prima reazione di amici e colleghi è “almeno è capitata a lui non a me” e, appena dopo, “può favorire un mio avanzamento di carriera?”. La moglie stessa si ingegna subito a prenderne la migliore pensione. Voi direte: umano, troppo umano. D’accordo. Infine: una possibile luce interviene per lui solo dopo che ha realizzato tutta l’impostura della propria biografia.

E allora: pensiamo che Tolstoj è così moralista da ritenere che si dia una esistenza aliena da ogni menzogna, una esistenza utopica vissuta nella piena trasparenza della verità, o anche una società in cui la morte di un conoscente non possa trasmetterci anche un po’ di sollievo, perché io almeno gli sono sopravvissuto? No, come ogni credente Tolstoj pensava che a causa del peccato originale è impossibile estirpare dal cuore umano la bassezza, l’abiezione, l’egoismo, la recita dei ruoli sociali (io, come non credente, penso lo stesso). Ogni uomo di fronte all’estremo varco si trova come Ivan Il’ič, e come lui ripensa a quanti ha ingannato e imbrogliato e avvelenato.

Ma allora qual è la differenza, il salto che potrebbe assecondare quel bagliore di luce un attimo prima della fine? Non tanto pretendere di eliminare il male quanto guardarlo in faccia lucidamente, riconoscerlo, non attribuirlo agli altri, non cercare alibi. E al tempo stesso sapere che il male è la parte non il tutto. Non è l’unica verità. Che se c’è la morte non perciò tutto il resto viene equiparato a sogno, fantasma e illusione. Anzi potrebbe darsi che la morte stessa si riveli essere – in un ultimo colpo di scena – una illusione, non più consistente di altre, fatta della stessa sostanza dei sogni.