Il 7 dicembre 1965 (l’anno prossimo saranno 60 anni), nel Concilio Vaticano II (1962-1965) fu approvato, con soli 70 voti contrari, la Dichiarazione su “La libertà religiosa”, con il titolo Dignitatis Humanae.

Alcuni giorni prima delle ultime elezioni presidenziali americane, Sandro Magister ha osservato che “tra i cattolici ancora impegnati sulla scena pubblica, a scomparire è soprattutto la generazione del progressismo postconciliare, di chi si identificava nello spirito del Vaticano II” e che “hanno trovato un nuovo attivismo le associazioni tra i teologi conservatori, più a-conciliari che anti-conciliari, volutamente neutrali nel maneggiare i documenti del Vaticano II” (www.diakonos.be). A-conciliari, o neutrali, mentre il protagonista della Dichiarazione fu proprio un teologo americano: il gesuita statunitense John Courtney Murray.

Il riconoscimento del diritto alla libertà religiosa da parte della Dichiarazione conciliare rappresentò un tassello determinante e pregiudiziale nel confronto dialogico e non più polemico della Chiesa con la modernità. Si enunciava finalmente un’opzione preferenziale per la democrazia. L’idea della dignità dell’uomo, concepito ad immagine del Creatore e chiamato a divenire figlio adottivo di Dio, apparteneva alla più originaria eredità della dottrina cristiana. Adesso veniva affermato che non c’è un autentico riconoscimento della dignità della persona se questa non può effettivamente esercitare i diritti – dunque inalienabili – e le libertà che le sono propri. E tale acquisizione rappresentava un decisivo elemento di svolta. Si abbandonava così la tradizionale prospettiva dei “diritti della verità” e si asseriva, di converso, la titolarità “personale” del diritto alla libertà civile, anche in materia religiosa. Prima del concilio, il riconoscimento del soggetto individuale come titolare del diritto alla libertà religiosa era subordinato alla permanenza dell’uomo nell’“area” delle verità etiche e religiose. Adesso la titolarità del diritto alla libertà religiosa è riconosciuta all’individuo nella concretezza del suo essere, anteriormente agli sforzi compiuti per il raggiungimento della verità.

“Il concilio e la democrazia”, dunque, come recita il titolo di un nostro libro uscito in questi giorni (Olio Officina Edizioni, Milano 2024). Mentre imperversano sanguinosi conflitti aperti da autocrazie e organizzazioni terroristiche contro le democrazie liberali, la società aperta, plasmata dall’Occidente, appare sotto scacco. La democrazia degli Stati nazionali, da sola non è più in grado di esercitare la sua funzione regolatrice. E se si vogliono affrontare le nuove disparità e ingiustizie indotte dalla globalizzazione occorre dare forza culturale, politica e sociale a processi di estensione dei diritti di partecipazione politica oltre la funzione propria degli Stati. Tali diritti fondano, infatti, la cittadinanza politica attiva, ossia l’esercizio pubblico dell’autonomia. E solo ordinamenti democratici sovranazionali possono garantirli. Insomma, i cittadini potranno esercitare la propria sovranità nel proprio Stato e in una dimensione sovranazionale se la cittadinanza politica attiva sarà in grado di esprimersi anche direttamente in una democrazia oltre lo Stato.

Tornare a riflettere sui lavori conciliari può, dunque, aiutarci a recuperare la memoria di quei filoni storici della tradizione cristiana che furono a fondamento della cultura europea e, successivamente, del costituzionalismo americano. E può renderci più consapevoli delle potenzialità che le religioni possono avere di alimentare la democrazia con le loro specifiche culture. Ma c’è anche un’ulteriore ragione per spingere le religioni a confrontarsi coi temi della democrazia: è più probabile che queste si lascino contaminare dalle procedure democratiche, integrandole nei loro rispettivi ordinamenti confessionali. Per alcune Chiese protestanti, questo tema venne affrontato in qualche modo già negli anni Sessanta del secolo scorso; e ora l’assetto democratico interno andrebbe consolidato in tutte le Chiese riformate. Per la Chiesa cattolica si pone anche l’opportunità di aggiungere alla sinodalità una costituzionalizzazione democratica della propria vita interna e togliere così il terreno sotto i piedi alle cosiddette democrazie illiberali di paesi come l’Ungheria, dove la religione è stata trasformata in un corpus di appartenenze identitarie. Ma anche ai tentativi di mettere fine allo straordinario esperimento democratico che dura da oltre due secoli negli Stati Uniti, dove la parte più conservatrice dell’episcopato sostiene il trumpismo.

Per le Chiese ortodosse, il riconoscimento della democrazia potrà condurre a recidere il legame tra lo Stato e le Chiese locali; come drammaticamente si è manifestato e perdura con il regime autocratico russo, fino ad un’alleanza innaturale sul terreno di una guerra tragica e immotivata. Per l’ebraismo, il suo adeguamento alle regole democratiche sarà un modo per neutralizzare i gruppi di estrema destra che condizionano la democrazia israeliana. Per l’Islam, il riconoscimento della democrazia e dello stato di diritto potrà consentire di isolare e combattere processi di radicalizzazione, fino a pratiche di terrorismo, negazione assoluta delle aspirazioni alla spiritualità di quella religione.

Mario Campli, Alfonso Pascale

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