Hanno fatto crescere agrumeti nel deserto. Hanno trasformato il mare in acqua dolce da bere. Hanno inventato il pomodoro Pachino! Ok, il “pollice verde” degli israeliani è noto. Ma andiamo oltre il luogo comune. Perché, nella condizione di emergenza climatica e alimentare in cui versa la popolazione mondiale, quello che nasce nelle startup specializzate nell’agrifood rigenerativo tra Tel Aviv e Haifa – discendenti dirette degli agronomi dei kibbutz – può rappresentare una soluzione sostenibile.

Sionismo e modernizzazione agricola vanno di pari passo. Il rumeno Aaron Aaronsohn viene ricordato sia perché fondatore del Nili, il gruppo patriottico ebraico che spia gli inglesi durante la prima guerra mondiale, sia come scopritore del grano selvatico; risultato fondamentale nello studio dell’origine genetica dell’agricoltura cerealicola. Il russo Menachem Ussishkin era un dirigente del Keren Kayemet LeYisrael (Kkl), la più antica organizzazione ecologica al mondo e, al tempo stesso, svolse un ruolo da protagonista nelle opere di bonifica delle terre della futura Israele, promuovendo le prime coltivazioni moderne.

Sono tanti i padri dell’agrifood avanzato che oggi ruota intorno agli hub delle università israeliane. Secondo l’Israel Innovation Authority, il Paese conta 946 startup. Di queste, 49 sono state avviate dal 2023, quindi in piena guerra. Tra loro, il 25% ha già ricevuto finanziamenti, pubblici e privati, per 15,36 milioni di dollari. Su un totale di 9,5 miliardi di dollari raccolti dal 2018 a oggi. Cinque le aree principali di attività: climate smart agriculture, energia pulita, nuove tecnologie alimentari, mobilità sostenibile e infrastrutture idriche eco-efficienti. Tutti settori utili a contrastare il cambiamento climatico.

Secondo il World Resources Institute, nel 2024, il processo di deforestazione è cresciuto tornando ai livelli del 2016. La desertificazione, unita alle operazioni di sfruttamento del suolo, quanto agli incendi di vaste dimensioni – vedi in California all’inizio di quest’anno – sono fenomeni che richiedono interventi strutturali. Piantumazione, ricostruzione dei bacini idrici e ripristino ecologico sono passaggi fondamentali per il recupero di un ecosistema. Ne è un modello quello realizzato dal Kkl per la foresta di Ben Shemen, andata a fuoco nel 2019 e oggi tornata a essere un polmone verde del Paese.

Il costante aumento demografico incide sulla sempre minore disponibilità alimentare, quanto anche sul crescente sfruttamento delle risorse naturali per la produzione di cibo. Israele è centro di ricerca dei novel food – carne coltivata, ma non solo – e sviluppo di soluzioni per ridurre l’uso sproporzionato e non necessario di antibiotici negli allevamenti. Progetti come Arventa Vet, finanziato anche da Horizon 2020 dell’Ue, hanno un impatto virtuoso sia sul benessere animale, sia sull’utilizzo e la lotta allo spreco di risorse naturali. Prima fra tutte l’acqua.
Per il Paese infatti, come per l’intero Medio Oriente, il controllo dell’oro blu è la vera questione economica alla base di tutti i conflitti. I sistemi di irrigazione di precisione, per esempio N-Drip, permettono la razionalizzazione dell’utilizzo delle acque, fino a un risparmio del 70% delle risorse, quanto la riduzione del consumo energetico e di fertilizzanti.

Ed è proprio sulla questione acqua che Israele ha cooperato, finora con successo, con molti Paesi europei del Mediterraneo, Italia in prima fila. Il nostro territorio è vittima di un processo, lento ma in crescita, di desertificazione. È per questo che le Università di Torino e Firenze, ma anche la Regione Puglia si erano risolve a un ecosistema innovativo che sa – si parlava di luoghi comuni – come strappare terra fertile al deserto. La partnership degli atenei di Torino e Tel Aviv prevedeva lavori congiunti e lo scambio di ricercatori in campi quali sviluppo di tecnologie per il trattamento delle risorse idriche (acqua potabile, acque industriali e di scarico, desalinizzazione), ottica di precisione, elettronica e tecnologie quantistiche. Sappiamo come è andata a finire.

Conviene? È questa la domanda che bisogna porsi di fronte al boicottaggio degli enti pubblici europei nei confronti di Israele. Il mondo imprenditoriale non è ancora stato contagiato da queste serrate ideologiche. Conviene a Greta Thunberg, così come all’intero movimento dei verdi in Europa, rigettare le buone pratiche di una società le cui soluzioni per affrontare il cambiamento si stanno dimostrando efficaci, in favore di un matrimonio improbabile tra la causa palestinese e quella ambientale? Conviene all’Unione europea, dove il Green Deal è in ritirata, voltare le spalle a un Paese dove libertà d’impresa, finanziamenti a nove zeri e trasferimento tecnologico non restano un sogno, ma sono la realtà di tutti i giorni?