Tutti abbiamo fatto il gioco del telefono, usando due barattoli collegati col filo: le due estremità del filo solo fissate al fondo di ciascuno dei due barattoli, scoperchiati dall’altra parte. I due giocatori si allontanano uno dall’altro, tenendo ognuno un barattolo, fino a quando il filo non è teso. A questo punto, è possibile comunicare a distanza. Il primo giocatore parla in un barattolo e l’altro ascolta, avendo messo l’orecchio dentro l’altro barattolo. La voce, ovvero l’informazione, corre lungo il filo e mette in comunicazione, attraverso i barattoli, i due giocatori. Nel cervello abbiamo circa cento miliardi di barattoli, i neuroni. In realtà, i neuroni, le cellule del sistema nervoso centrale, sono molto più complesse di semplici barattoli, perché sono in grado di svolgere funzioni superiori, come immagazzinare informazioni, oltre che trasmetterle e riceverle. E, a differenza dei due barattoli che comunicano, ogni neurone è collegato non a uno, ma a decine di migliaia di altri neuroni. E i neuroni non sono due, ma circa cento miliardi.

Cento miliardi di neuroni, aventi ognuno decine di migliaia di collegamenti con gli altri, significa che i collegamenti di un cervello sono centinaia di migliaia di miliardi, ovvero i soldi che avrebbe il comune di Piacenza, se ognuno dei suoi cittadini possedesse un miliardo di euro.  I neuroni formano quindi un groviglio di connessioni, dette sinapsi, che rende il cervello umano l’organo di gran lunga più complesso, versatile e potente mai comparso in Natura. Eppure, la similitudine dei barattoli ci può aiutare a capire molto del suo funzionamento. Se infatti ci soffermiamo su una qualunque delle sinapsi, i barattoli ci suggeriscono come mai, a un certo punto, a causa di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, il collegamento si possa interrompere. Immaginiamo che i giocatori stiano comunicando, rispettivamente, parlando ed ascoltando ognuno tramite il proprio barattolo. Il filo vibra e trasporta il messaggio da un barattolo all’altro. Se adesso qualcuno iniziasse ad appendere delle mollette da bucato al filo, cosa succederebbe? Il filo si appesantirebbe progressivamente, perdendo di elasticità. Il segnale che scorre lungo di esso diventerebbe sempre più debole e confuso, fino a scomparire.

LEGGI ANCHE – Riabilitato Aducanumab, il primo farmaco contro l’Alzheimer

Le sinapsi non sono fili, sono spazi attraverso cui i neuroni comunicano rilasciando e assorbendo sostanze chimiche chiamate “neurotrasmettitori”. Lo scambio di neurotrasmettitori è quello che ci consente di pensare, desiderare, emozionarci, vedere, sentire, parlare, muoverci e ricordare. In una frase, quello che ci rende noi stessi, degli esseri umani…  Le sinapsi sono le vittime dell’Alzheimer.  Durante il processo di comunicazione, dovuto al trasferimento dei neurotrasmettitori, i neuroni rilasciano anche piccole quantità di una sostanza chiamata beta-amiloide. Le molecole di beta- amiloide sono come le mollette che si attaccano al filo. Se si accumulano, disattivano la sinapsi, interrompendo il dialogo tra le cellule del cervello. Fortunatamente, nel corso dell’evoluzione, il cervello ha preso le sue contromisure, predisponendo delle cellule spazzine che rimuovono continuamente le molecole di beta-amiloide. Sebbene tra gli scienziati il dibattito sulle cause dell’Alzheimer sia ancora aperto, generalmente si ritiene che la malattia insorga quando la beta-amiloide inizia ad accumularsi in maniera anomala, non essendo più efficacemente smaltita. Come dite? Vi ricorda il problema di accumulo della “munnezza” sulle strade durante lo sciopero dei netturbini, che non permette la libera circolazione di pedoni e veicoli? Non ci avevo pensato, però sì, ci sono senz’altro delle analogie…

Insomma, le molecole di beta-amiloide si ammassano negli spazi altrimenti liberi delle sinapsi e si legano le une alle altre, formando degli aggregati definiti “placche amiloidi”, di cui avevate forse sentito parlare come sintomo distintivo dell’Alzheimer. In realtà, dopo i 40 anni un progressivo accumulo di beta-amiloide è fisiologico e si vive serenamente, senza avere consapevolezza di quanto sta accadendo, perché non si manifestano disturbi cognitivi o difficoltà di parola. In alcuni sfortunati casi, però, l’accumulo prosegue oltre il limite di tolleranza. Si crede che occorra una ventina d’anni perché la quantità crescente di beta-amiloide possa raggiungere tale valore critico. A questo punto, si innesca un rapido processo molecolare che comincia a distruggere le sinapsi e causa i sintomi tipici dell’Alzheimer. Prima di allora si verificano solo episodi che potrebbero mettere in allarme, ma niente di serio, come “ma dove ho lasciato il cellulare stavolta? Era proprio qui, sono sicuro” o “che ci sono venuto a fare in questa stanza?” o ancora “come accidenti si chiamava il tizio di ieri mattina. Qualcosa con la L… Lollo? Lallo? Ma no, quello è il cane di mio cugino…”
Se è capitato anche a voi, aspettate ad allarmarvi! Il motivo più probabile è la semplice distrazione: non avete davvero scordato il nome del tizio di ieri mattina. Più probabilmente non lo avete affatto memorizzato… E anche per questo non è facile capire se ci stiamo avviando al declino della nostre facoltà cerebrali.

LEGGI ANCHE – Un farmaco sperimentale frena il declino mentale

Nonostante decenni di ricerche nel campo, le aspettative di trovare una cura sono andate deluse. Recentemente è circolata la notizia che, in alcuni topi, si sia assistito a una regressione dei sintomi tipici dell’Alzheimer, grazie a una terapia che consiste nell’indurre la produzione di anticorpi da parte delle cellule stesse. Gli anticorpi avrebbero la capacità di aggredire gli accumuli di beta-amiloide nei primi stadi della formazione. I risultati sono interessanti e questa ricerca va incoraggiata e sostenuta. Purtroppo, però, siamo ancora ben lontani dal poter cantare vittoria. Come usa dire il mio amico Gerardo D’amico, allo stadio attuale “sono ottime notizie, per i topi”. I test dovranno continuare e dare altre conferme, prima di poter avviare la sperimentazione su soggetti umani. Tuttavia, c’è qualche buona notizia anche per noi, oltre che per i topi. Stili di vita sani, alimentazione equilibrata, esercizio fisico e attività intellettuale, riducono il rischio di contrarre l’Alzheimer, o ne contrastano gli effetti. Esercitare la mente, produce la crescita del numero di collegamenti nel cervello necessari a ritenere le informazioni, cioè la formazione di nuove sinapsi. Alcuni neuroscienziati ritengono che la distruzione di alcune sinapsi, dovuta all’effetto dell’Alzheimer, non comprometterebbe in modo irreparabile le facoltà cognitive, a causa della ridondanza dei collegamenti. Una “riserva cognitiva” che potrebbe essere il nostro alleato. Sia contro l’Alzheimer, che contro l’impoverimento intellettuale.