Il turning point, il punto di svolta, è all’origine dell’ucronia, l’utopia del tempo passato, la vita (di ciascuno) come avrebbe potuto essere se. La chiamano anche, quando coinvolge le masse, “what if history”. Il punto di svolta narrativo è uno dei tormentoni tematizzati nel bellissimo L’infinito, di Umberto Contarello, sceneggiatore da Oscar nella vita e sceneggiatore disincantato nel film da lui stesso diretto.

Prodotto da Paolo Sorrentino, suo regista di elezione dopo Carlo Mazzacurati, cui il film è dedicato, realizza uno scambio continuo di ruoli e di “sensi”. La parola (dello sceneggiatore) che vede in anticipo, diventa sguardo (del regista) che dà vita. L’occhio si ferma dinanzi agli ostacoli e ha bisogno di uno stetoscopio per sentire quello che non si vede: l’acqua che scende dentro i muri, il cuore che batte con ritmi diversi, le parole dei figli che parlano di un padre desideroso di essere riconosciuto e accettato.

Il turning point è sempre possibile, se sappiamo improvvisarlo creandone le condizioni, quando la vita ci manda i suoi segnali: un figlio di cui si ignorava l’esistenza; un antico amore che nasconde una carrozzina sotto un primo piano apparentemente immutato; una suora che lava i vetri con gesti antichi ma si rivela perfetta conduttrice di un monopattino, una sorta di tappeto volante che realizza poi il sogno (e il segno) dell’infinito. Umberto, “Umbe” per gli amici, come immagino diventeranno tutti gli spettatori di questo film, vive e dirige frammenti, inquadrature, dialoghi, intrecci di domande e risposte, o di domande che non possono avere risposte, come i tanti struggenti e tardivi “perché” sulla tomba della madre.

Ancora una suora, la superiora, capace di cambiare senza problemi vita e orizzonti, è pronta a riportare Umbe alla sua realtà di figlio straziato e protetto fino ad allora da una grande bugia sulla scomparsa della madre. Una bugia che ancora fa danni nel suo rapporto con la figlia. Intorno a Umbe ruotano, ma con assoluta autonomia, persone e oggetti che ne mettono continuamente in dubbio e ne sfidano la solitudine, così come i luoghi comuni sempre in agguato: tazzine di caffè pronte in ogni momento; mandarini che, sbucciati a dovere, attenuano l’ansia; bicchieri di gin; un imperturbabile maggiordomo che potrebbe rappresentare, in alcuni momenti, la trasfigurazione veneta dei duetti Totò-Carlo Croccolo; una stagista cocciuta ma non irragionevole; una Roma molto diversa da quella de La grande bellezza, anche se il Tevere continua ad accompagnare sprazzi di vita e morti inattese. E riappaiono con un ritmo non imprevedibile gesti che non sono mai uguali, perché sono cambiati la tensione interna e il contesto, quasi segnali di (auto)riconoscimento: accendersi una sigaretta, mescolare il gin tonic con due dita.

La vita non è un film. Appare tale solo perché sapienti e interessati montatori la offrono al pubblico dell’elogio funebre come una sequenza logica e concatenata. Giusto, dunque, che un film non imiti questo gioco di specchi, ma che riaffermi la validità del frammento, dell’improvvisazione, dell’attesa di un turning point che forse non riconosceremo mentre si mette in moto. Sarà poi facile, con un semplice monopattino, realizzare un sogno; con un mazzo di chiavi permettere a una figlia di venirti a trovare quando vuole. So che Umbe ha molti dubbi sulle metafore, ma non ho potuto fare a meno di pensare che l’uomo che si mette a nudo all’inizio del film, mentre scorrono i titoli di testa, può addormentarsi alla fine più sereno, vestito di tutto punto, perché ha saputo raccontare una scena, o molte scene, di ballo con la vita, che non servono a niente. Una piccola invidia personale, per concludere: piacerebbe anche a me avere Danilo Rea come colonna sonora dei miei frammenti di vita. Ma so che rimarrà un sogno.

Gigi Spina

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