Di modi di dire, frasi fatte, espressioni idiomatiche sulla speranza, ce n’è un sacco e una sporta. La speranza è l’ultima a morire, è la ricchezza dei poveri. Finché c’è vita c’è speranza. C’è persino un colore che la rappresenta, e per inciso è pure il mio colore preferito: il verde. Il colore dell’erba che cresce, delle foglie nuove a primavera, della natura che germoglia, dei polloni che ributtano, della vita che vince e sbandiera il suo trionfo dopo l’immobile morte apparente di inverni che paiono sterili ma sterili, invece, non sono. E il verde della speranza allora diventa un segnale, una prova che non finisce mica il mondo nel grigio delle morte stagioni; che, come alla notte segue il giorno, come alla crisi segue la soluzione, ai sei mesi in cui Persefone è agli inferi ne seguiranno poi altri sei, e saranno mesi di fioritura. In questa estate, poi, di caldo torrido e di siccità, di prati stopposi, di raccolti a rischio, il verde ci appare più che mai un miraggio, una rassicurazione. Ma siamo proprio sicuri che sia così semplice?

Guardiamolo da vicino, questo verde. È un colore su cui si addensano significati simbolici che trascendono la tenera tinta dei fili d’erba. È il colore associato alla gelosia, per esempio: mostro dagli occhi verdi che dileggia/il cibo di cui si nutre, nelle parole del perfido Iago dall’Otello di Shakespeare. Il verde è il colore dell’ambivalenza, e per una ragione piuttosto pragmatica, ovvero l’instabilità chimica della tinta. Che, virando in sfumature impreviste, per secoli ha tormentato i pittori: fino al Settecento, per creare il verde si impiegavano coloranti naturali, fin troppo volubili, anziché la ben più stabile miscela di pigmenti blu e gialli, che ha dato vita ai verdi moderni. Dunque, anche se il verde da qualche secolo non è più un grattacapo per artisti, la sapienza popolare mantiene l’antica associazione fra il colore serpentesco e i sentimenti più ambigui che essere umano conosca: l’invidia, la gelosia, ma anche, appunto, la speranza. E se vi pare che sia fuori posto, la speranza, in questo elenco, provate un po’ a pensare a quanto in effetti condivida, con il verde tormentosamente distillato in remoti ateliers, un carattere effimero, potenzialmente illusorio: come quel verde instabile, la speranza è un azzardo, è una mutevole tonalità del capriccio.

Non concede nessuna garanzia, anzi: proprio la sua bizzosa imprevedibilità offre gli appigli a cui ci intestardiamo ad attaccarci, e più ci deluderà, più modereremo le nostre pretese, pur di mantenere il fioco chiarore dell’illusione; e saremo dunque pronti ad accontentarci degli scampoli, dei ritagli, degli scarti delle speranze grandiose che ci avevano sedotti in prima battuta. Speranze di seconda mano, d’accatto, ce le faremo bastare; e ancora non sarà sufficiente, perché coltivare la speranza è come innamorarsi di un briccone inaffidabile: più ci bistratta, più ci lasciamo bistrattare, ogni volta convincendoci che cambierà, che lo cambieremo. E da ogni nuova illusione la caduta fa più male, finché non riusciamo a liberarci, a vedere le cose per come stanno davvero, a riprendere in mano la nostra vita e a mandare a quel paese il mascalzone, così finalmente saremo al sicuro, almeno finché non ne incontreremo un altro.

Che la speranza sia una passione triste, del resto, e somigli dunque più alla paura che alla gioia, non me lo sono certo inventato io: lo sostenne il grande nemico di ogni superstizione e scaramanzia, l’inarrivabile demistificatore Baruch Spinoza, che per restituire all’uomo un’idea di libertà di una chiarezza e di una razionalità quasi insostenibili, si dedicò alacremente all’impresa di dissipare il fumo delle illusioni e delle credenze più radicate e perciò più ingannevoli. Per lui, che riallaccia il suo razionalismo a una lunga tradizione stoica di allenamento a ritenersi interamente padroni, e responsabili, del proprio destino – e dunque, a non appuntare la propria attenzione, né tantomeno le proprie aspettative, a quel che non si ha in potere di realizzare – la speranza confina con il timore: per questo, come tutte le passioni tristi, ci mette nella condizione di passare da una maggiore a una minore perfezione – parola ereditata dalla scolastica, che indica il grado, l’intensità del nostro essere radicati nella realtà del mondo. Insomma, la speranza, che pure – ci illudiamo? – aiuta a vivere, immaginando un futuro più clemente, orizzontando la prospettiva delle nostre azioni, in realtà ci rende meno presenti all’impresa stessa del nostro vivere: più passivi, più ricattabili, più fiacchi.

A ben pensarci, è difficile trovare una buona obiezione da opporre alla lapidaria sentenza spinoziana. Certo, in questo periodo, in cui il futuro sembra non promettere niente di buono, dopo che per due anni e rotti ci siamo allenati a non immaginare il domani perché giorno dopo giorno, come navi disperse fra i marosi, ci sembrava di poter solo navigare a vista, ci sarebbe di grande conforto poter sperare in una svolta che riscatti le difficoltà, le fatiche; che ci ristori. Ma la difficoltà sta proprio nel dissidio fra il pessimismo della ragione, che Spinoza in qualche modo ci impone, e l’ottimismo del cuore che desidera poter credere, se non a un risarcimento, almeno alla traccia di un senso. Del resto, ben prima che Spinoza desse forma geometrica alla sua sentenza sulla speranza, la ragione mitopoietica dei Greci aveva dato vita alla storia di Pandora, nostra incauta progenitrice, che per incoercibile curiosità apre il vaso che Zeus le ha affidato senza chiederle altro che di mantenerlo sigillato, riuscendo in un mirabile esperimento di psicologia inversa e spingendola dunque a svitare il tappo proibito.

Dal vaso escono i mali che assediano l’umanità, fino ad allora immersa in uno stato di beatitudine che, chiaramente, non poteva durare: c’è sempre, nei miti cosmogonici, un’irrequietezza che viene a turbare l’ordine perfetto della vita primordiale, e forse anche in questa costante c’è una grande lezione: abbiamo bisogno di muoverci sul filo del rischio, dell’azzardo, della disperazione? Io credo di sì. Pandora, quantomeno, in questo campo si rivela decisiva: dal vaso esce ogni genere di calamità, vecchiaia e gelosia, follia, dolore, e vizio. Pur con congruo ritardo, lei si rende conto del patatrac e si affretta a richiudere l’otre: dentro, imprigionata, rimane solo la speranza.

Insomma, nel mito raccontato da Esiodo c’è un sottinteso sottile: la speranza non è di per sé una cosa buona. È un male – altrimenti, che ci farebbe, in fondo al vaso? Ma è un male che ci aiuta ad affrontare tutti gli altri, se ci adoperiamo per farne un uso il più possibile saggio: e fare un uso saggio della speranza, io credo, significa non permetterle di trasformarsi in superstizione, mantenersi responsabili di quello che, nella nostra vita, dipende da noi e solo da noi; e, insieme, rendersi conto che proprio perché siamo esseri umani, imperfetti, instabili, assediati dai mali cui ci ha condannati la curiosa e imprudente Pandora – decisamente una di noi – possiamo approfittare della grazia della speranza per sorridere un poco anche della nostra disperazione.