Era l’8 marzo del 2014 quando il Boeing 777-200ER di Malaysia Airlines sparì nel nulla. A bordo, su quel volo decollato da Kuala Lumpur e diretto a Pechino, viaggiavano 239 persone. Non se ne seppe più nulla, dopo la sparizione il velivolo non venne intercettato o visto da nessun radar. Il Corriere della Sera ha dedicato un longform, un lungo approfondimento a quello che viene considerato “il più grande mistero dei cieli” di sempre. A nove anni dalla scomparsa di quel volo non si sa ancora nulla. Le autorità malesi non hanno mai voluto rispondere alle domande del giornale.

Era cominciato tutto con il messaggio dal centro operativo di Malaysia Airlines, l’ultimo tentativo per mettersi in contatto con il Boeing 777-200ER. Dall’1:20 ogni collegamento con satelliti e la terraferma sono stati spenti, un minuto dopo il velivolo è sparito dai radar. Zaharie Ahmad Shah aveva 53 anni, era sposato e aveva tre figli, 18.423 ore di volo in carriera. Con lui ai comandi c’è il primo ufficiale Fariq Abdul Hamid, 27 anni, 2.813 ore di volo alle spalle. C’è abbastanza carburante nei serbatoi. I satelliti militari hanno ricostruito il percorso del Boeing 777: disattivato il pilota automatico, il velivolo ha virato bruscamente verso lo stretto di Malacca. Avrebbe virato per altre quattro volte fino al mare aperto. Sospetto il balzo in quota fino a 14.478 metri mentre il livello massimo per operare in condizioni di sicurezza è di 13.106 metri.

L’ultima volta che i radar individuano il Boeing sono le 2:22 e 12 secondi, sul mare delle Andamane. La stazione di rilevamento idroacustico HA01, nell’Australia Occidentale, registra a circa duemila chilometri di distanza, nell’Oceano Indiano, un’importante anomalia sonora alle 00.52. Un vero e proprio tonfo. Decine di navi, elicotteri e mezzi di ricognizione hanno setacciato 320 chilometri quadrati di mare dopo la richiesta della Malaysia all’Australia, che ha attivato l’Atsb, l’Ufficio australiano per la sicurezza dei trasporti. Alcuni pezzi saranno ritrovati in Africa. 33 pezzi in tutto sono stati recuperati.

Per 18 mesi nascoste le informazioni sul simulatore di volo che il pilota si era costruito in casa e con il quale si sarebbe addestrato per voli verso nessuna destinazione specifica di approdo. “Non è un giallo, a voler essere sinceri: è semplicemente una decisione governativa, cioè della Malaysia, di non ammettere che l’aereo è andato in fondo all’Oceano Indiano su decisione del comandante Zaharie Ahmad Shah”, ha spiegato al quotidiano uno degli analisti che ha contribuito al rapporto finale sull’incidente.

L’ex premier australiano Tony Abbott nel 2020, a Sky News, aveva rivelato che un alto funzionario malese aveva espresso il sospetto su un gesto suicida del comandante. Perché? Non esiste una risposta. Le ipotesi portano alla condanna in Appello, il giorno prima del volo, per sodomia a cinque anni di reclusione per Anwar Ibrahim, leader dell’opposizione e dal novembre 2022 primo ministro malese, parente di Shah. Una pista politica. L’altra ipotesi porta a problemi personali: secondo alcuni colleghi il comandante era “un po’ spento” negli ultimi tempi. “Questo mestiere può essere alienante se si fanno le stesse rotte”.

No comment dalle autorità e dal Camm, il Dipartimento dell’aviazione civile malese. Nessun commento neanche da parte di Abbott. Nessuna scatola nera è mai stata ritrovata, nessuna rivendicazione e nessun biglietto. “Due esperti in transazioni assicurative dicono al Corriere che nel caso venisse accertata la responsabilità del comandante Malaysia Airlines potrebbe essere chiamata a pagare circa 3 miliardi di dollari di risarcimenti ai famigliari“.

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