Può una singola persona fare la storia dei diritti? E può farlo se versa in condizioni fisiche di estrema vulnerabilità? Infine. Può farlo mettendo fine alla sua esistenza?
In Italia, sì. Ieri mattina alle 11.05 Federico Carboni, finora noto come “Mario”, un quarantaquattrenne di Senigallia, ex camionista e tetraplegico da 11 anni in seguito a un incidente stradale, è morto. È il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al cosiddetto suicidio medicalmente assistito, reso legale dalla sentenza della Corte Costituzionale 242 del 2019, sul caso Cappato-Dj Fabo. È la prima volta che un malato in Italia può mettere fine alle proprie sofferenze, esercitare un diritto riconosciuto ed esprimere pienamente la propria volontà. E quella volontà è bene ascoltarla dalle sue stesse parole.

«Ciao a tutti, sono Mario. Eh sì, il Mario che avete conosciuto in questi mesi. In due anni, ma questa volta sarà l’ultima che sentirete le mie parole perché vi sto scrivendo a pochi giorni da quando finalmente potrò premere quel pulsante, potrò porre fine alle mie sofferenze. Non nego che mi dispiace congedarmi dalla vita, sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma purtroppo è andata così. Io sono allo stremo sia mentale che fisico. Ho fatto tutto il possibile per riuscire a vivere al meglio e cercare di recuperare il massimo della mia disabilità. Posso dire che, da quando a febbraio ho ricevuto l’ultimo parere positivo sul farmaco, sto pensando più e più volte al giorno se sono sicuro di quanto andrò a fare perché so che premendo quel bottone ci sarà solo un addormentarsi, chiudendo gli occhi senza più ritorno. Ma pensando ogni giorno, appena sveglio e fino alla sera quando mi addormento, come vivo, passo le mie giornate a domandare cosa mi cambierebbe. Rimandare non avrebbe senso. Non ho il minimo di autonomia nella mia vita quotidiana, sono in balia degli eventi, dipendo dagli altri su tutto, sono come una barca alla deriva nell’oceano. Sono consapevole delle mie condizioni fisiche e delle prospettive future quindi sono totalmente sereno e tranquillo per quanto farò. Non so se tutti capiranno e accetteranno mai la mia scelta, ma in queste condizioni ci sono io e parlarne da esterni è troppo facile».

Federico Carboni ha scritto questa lettera il 2 maggio scorso. La richiesta di essere sottoposto alla verifica delle proprie condizioni per poter procedere nella sua scelta, così com’è stato previsto dalla sentenza della Corte Costituzionale prima citata, è partita nell’agosto del 2020. Nel frattempo, ci sono stati due procedimenti giudiziari che hanno portato a una condanna nei confronti dell’Azienda Sanitaria Unica Regionale Marche (ASUR). Una condanna proprio a verificare se Federico possedesse le condizioni previste dalla Corte Costituzionale, cioè se fosse capace di autodeterminarsi, se fosse affetto da una patologia irreversibile arrecante gravi sofferenze, se dipendesse da trattamenti di sostegno vitale. Carboni, grazie al parere successivo alla sentenza del Tribunale di Ancona, possedeva tutti quei requisiti. Ma non è finita lì. Quel primo parere era privo della parte di verifica del farmaco e delle modalità per procedere. E quindi un nuovo processo a carico dell’Asur. Il successivo parere, ancora favorevole per Carboni, è arrivato a febbraio del 2022. Ma siamo a giugno. Cosa è successo da febbraio a giugno?

La sentenza della Corte Costituzionale ha sì valore di legge e prevede un obbligo per il Sistema Sanitario Nazionale di verifica delle condizioni e delle modalità per procedere, ma non c’è una legge per fornire tutto ciò che serviva a Federico Carboni per poter rendere esigibile il suo diritto. E lo Stato italiano non si è fatto carico dei costi di assistenza al suicidio assistito e di erogazione del farmaco. Lo hanno fatto, da soli, lui, i suoi familiari e l’Associazione Luca Coscioni, che in poche ore ha raccolto 5000 euro per comprare la strumentazione necessaria. E finalmente ieri si è potuta compiere la sua volontà. Due anni dopo. Due anni in cui sarebbe potuto andare a morire in Svizzera. Due anni in cui le sofferenze si sono aggiunte a quelle già patite negli anni precedenti alla sua mobilitazione.

Invece Federico Carboni ha deciso di aspettare. Ha voluto esercitare la sua libertà di scelta in Italia, un paese in cui più si è vulnerabili fisicamente meno si possono far valere i propri diritti. «Io mi vergognerei, da parlamentare, se a fine legislatura si arrivasse senza una legge sul fine vita. Sarebbe una scelta vergognosa. Quanto accaduto oggi non può non far riflettere», ha chiosato il segretario del Pd, Enrico Letta. Grazie alla resistenza di una persona che quella vulnerabilità ha conosciuto, da ieri siamo tutti più autonomi, più tutelati, più liberi.