Arrestato il 31 gennaio 2006, dopo un anno e cinque mesi (giugno 2007) decide di iniziare il percorso di collaborazione con la giustizia, finito una prima volta nel 2013 quando viene capitalizzato e con i soldi ricevuti dal Servizio Centrale di Protezione prende casa e avvia un’attività commerciale in una città del centro-Italia per poi, ‘grazie’ a un errore di chi lo proteggeva (lo Stato), tornare nuovamente sotto lo status di pentito nel 2014, cambiare luogo e perdere quel poco che aveva provato a costruire in quei mesi. Oggi, dieci anni dopo, è un ibrido. Non è più sotto protezione, non è stato nuovamente capitalizzato, sta scontando gli arresti domiciliari, ha dei permessi (4 ore la mattina e 4 il pomeriggio) per lavorare ed un fine pena previsto nel 2044, ben 38 anni dopo l’arresto e la decisione di passare dalla parte dello Stato.

E’ la storia, o meglio, il calvario giudiziario che sta vivendo Michelangelo Mazza, ex rapinatore e poi killer del clan Misso del centro di Napoli, guidato dallo zio Giuseppe Misso, detto ‘o nasone. Michelangelo compirà 49 anni il prossimo 18 febbraio e vive in una località lontano da Napoli con la moglie, quattro figli e due nipoti, intrappolato nella palude burocratica di uno Stato che “anziché capitalizzarmi ha deciso di tenermi nel limbo pagando in questi anni cinque volte la cifra che avrebbe dovuto darmi per la fuoriuscita dal programma di protezione”.

E’ un fiume in piena Mazza, stanco della “poca trasparenza” del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del ministero degli Interni e delle sviste giudiziarie che – stando al suo racconto – gli costarono in passato il ritorno sotto la protezione dello Stato. Nella sua carriera criminale ha spiegato di aver ammazzato 12 persone: per nove omicidi è stato processato e condannato, per altri tre l’iter giudiziario è ancora in corso. “Era il 2013 ed ero stato capitalizzato non essendo più un collaboratore di giustizia. Così decisi di aprire un’attività in una cittadina del centro Italia ma un giorno nel presentarmi la notifica di un processo, dove ero imputato insieme ad altre persone, dimenticarono di cancellare i dati sensibili, riportando oltre al nome e cognome anche il mio nuovo indirizzo di residenza e creando una situazione di pericolo perché le altre persone che avevo accusato, e che erano imputate con me nel processo, venivano a conoscenza del luogo in cui abitavo”.

Mazza torna così sotto protezione, viene trasferito in una località diversa con la famiglia e riparte nuovamente da zero. Dopo anni da pentito 2.0, “nel 2018 presento un progetto e chiedo di uscire dal programma ma non mi rispondono. Così ogni anno, fino al 2022, chiedo sempre la stessa cosa, presentando ogni volta un progetto che però non viene accolto dalla commissione”. Nel frattempo ha lavoricchiato come fattorino, facendo consegne e usando la sua vera identità. “Più volte mi sono ritrovato in situazioni di potenziale pericolo perché, sia sulle app, che online circolava la mia foto con nome e cognome. Col tempo ho deciso di lasciare ed evitare di diventare un bersaglio facile”.

Passano gli anni e “il 22 aprile 2022 decido di rinunciare al programma di protezione perché stanco, stremato da queste continue diatribe con il Dipartimento di pubblica sicurezza. Dopo sei giorni – racconta – vengono a casa mia e contro ogni pronostico mi portano la capitalizzazione per tre soggetti della mia famiglia con la cifra che però viene secretata insieme alla delibera. Mi faccio i conti in base ai loro documenti e mando tutto al Servizio Centrale di Protezione che mi risponde offrendomi una somma al ribasso, ovvero 27mila euro per queste tre persone con un progetto della durata di cinque anni. Un’eresia, neanche 10mila euro a persona. Che progetto si può presentare con una cifra simile? Mi costringono così a fare l’ennesimo ricorso al Tar del Lazio, ne avrò fatti in questi anni circa una quindicina”.

Mazza racconta quanto avvenuto durante l’emergenza covid quando “lo stesso governo che il 9 marzo mette l’Italia in lockdown, nove giorni dopo, il 18 marzo, fa una delibera nei miei confronti bloccando la proroga del programma di protezione, senza la previsione di alcuna somma per poterti reinserire in società, togliendomi anche il contributo alimentare”. Da lì inizia una battaglia legale che termina nel novembre del 2021 con la sentenza del Consiglio di Stato che stabilisce che Mazza deve stare sotto protezione. “Oggi, dopo un anno e mezzo, stiamo nuovamente davanti al Consiglio di Stato sempre per gli stessi motivi: per lo Stato non devo più stare sotto protezione ma allo stesso tempo vogliono capitalizzare, con somme minime, solo tre persone della mia famiglia”.

Una vicenda ingarbugliata, con Mazza che ogni anno si ritrova sempre al punto di partenza. “Basti pensare che dal 2018, quando ho chiesto di uscire dal programma di protezione con una capitalizzazione di 70mila euro per consentire alla mia famiglia di ripartire con un progetto che riguardava l’affitto di una casa e l’avvio di un’attività commerciale, ad oggi, il Servizio Centrale di Protezione ha speso per la mia famiglia la bellezza di circa 400mila euro quando poteva risolvere il problema dei miei due nuclei familiari, con una cifra di 70mila euro. Un vero e proprio gioco al massacro, un cortocircuito che si perpetua per vendetta sui collaboratori di giustizia e, soprattutto, sui loro familiari che nulla hanno a che vedere con la malavita”.

A tutto questo si aggiunge l’iter giudiziario infinito, nonostante l’avvio della collaborazione con lo stato avvenuta 15 anni fa. “Sono ancora sotto processo in Corte d’Assise per svariati fatti di sangue e gli altri imputati sono attualmente liberi e, stando ai recenti fatti di cronaca nera, impegnati negli ultimi anni in conflitti di camorra”. Così facendo “il Servizio Centrale di Protezione mi costringerà a tornare a vivere a Napoli dove almeno posso contare sull’ospitalità di alcuni parenti anche se diventerei poi un soggetto a rischio perché, ripeto, le persone che ho accusato e che sono imputate con me in diversi processi, sono a piede libero”.

Nel corso della sua collaborazione con la giustizia, Mazza ha testimoniato in decine di processi “per ben 298 impegni giudiziari. Con le mie dichiarazioni, raccolte da almeno 19 magistrati, ho colpito i clan Misso, Mazzarella, Montescuro, Licciardi, Lorusso, Contini, Prinno, Elia, Lepre, Casalesi, Nuvoletta, Vastarella, Tolomelli, Genidoni, Rinaldi, Formicola. Mazza ha un fine pena nel 2044 nonostante la collaborazione con la giustizia: “E’ più alto di quello dello stragista Brusca (attualmente in libertà vigilata, ndr) e addirittura delle persone imputate con me in processi per omicidio e che non hanno deciso di passare dalla parte dello Stato”.

“Sono in trappola, vorrei solo lavorare in sicurezza e iniziare una nuova vita insieme alla mia famiglia” chiede Mazza che nelle prossime settimane racconterà, con Il Riformista, nel dettaglio la sua tormentata vicenda in una intervista video. Una vicenda simile a quella di Gennaro Panzuto, 48 anni, ex killer ed ex collaboratore di giustizia tornato a Napoli a inizio 2021 dopo essere stato “sbattuto” fuori dal programma di protezione non senza polemiche.

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Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.