L'intervista
La storica Soravia e la “palude mediorientale”: “Colpisce la cecità della politica estera degli stati occidentali. Unico game changer, l’atomica iraniana”
A colloquio con la storica Bruna Soravia. Si occupa di Islam, soprattutto medievale, di storia dell’orientalismo europeo e del conflitto arabo-israeliano. Ha insegnato in Francia, negli Stati Uniti e all’Università Luiss Guido Carli di Roma. In questa conversazione ricerchiamo e analizziamo le ragioni storiche di un conflitto che rischia sempre più di allargarsi in quella che la stessa professoressa ha definito «palude mediorientale».
Durante la prima guerra mondiale gli inglesi decisero di aprire un fronte contro la Germania attaccando uno dei suoi alleati, l’impero ottomano. questo fu la prima tessera del domino per riscrivere i confini di una delle regioni più calde – non solo dal punto di vista climatico – del pianeta. è necessario partire da qui per capire l’attuale allargamento del conflitto in medio oriente?
«Sono restia a indicare confini temporali netti, potremmo andare all’indietro di secoli facendo questo ragionamento, come possiamo partire altrettanto ragionevolmente da ieri.
In ogni caso, l’impero ottomano entra in realtà in guerra attaccando la Russia, ma è già indebolito dalla guerra italo-turca del 1911-12 (che permette all’Italia di appropriarsi della Cirenaica e Tripolitania) e dalle guerre balcaniche del 1912-13. Per la riscrittura, partirei semmai dalla fine della guerra e dalla spartizione dell’impero ottomano, quella davvero densa di conseguenze, per tanti motivi, ne indicherò solo due: l’imposizione di confini, strutture amministrative e politiche e di stili di vita occidentali a una regione che ne aveva di propri, pre-moderni (nessuno dei moderni stati mediorientali esisteva prima del 1920) ma funzionanti; l’ipocrisia politica ma anche l’ignoranza degli stati coloniali e mandatari, che risaltano agli occhi delle classi educate locali.
Parliamo dei confini: non esistevano gli stati, non esistevano i confini, quindi Francia e Inghilterra, le due principali potenze vincitrici che già si erano accordate nel 1915 (accordo di Sykes-Picot) per la spartizione, “inventano” i confini, tracciandoli letteralmente con il righello, come si può vedere su una carta del MO, ignorando i confini naturali, quelli etnico-comunitari e quelli culturali.
Quindi, impongono regimi-fantoccio a questi stati nati ieri, mettendo a capo coloro che appaiono più “occidentali” o più manovrabili. Quando vi sono conflitti, si barcamenano sostenendo alternativamente i campi opposti e cercando di indebolire i gruppi di potere più forti – è il caso della Francia in Siria, e dell’Inghilterra in Palestina. In Siria, la Francia ritaglia un nuovo stato costiero, il Libano, e lo consegna al gruppo di potere cristiano maronita che considera un cliente fedele, in questo modo gettando i semi del conflitto che scoppierà cinquant’anni dopo. In Palestina, l’Inghilterra promette, con la fatidica Dichiarazione Balfour del 1918, al tempo stesso un “focolare nazionale” agli Ebrei e la salvaguardia dei diritti di chi già abitava nella regione. Nel trentennio successivo, alternerà politiche filo-ebraiche e filo-arabe, creando le condizioni per la polveriera che esploderà alla fine del Mandato palestinese nel 1948.
Nella Cirenaica e Tripolitania, ribattezzate Libia, l’Italia di Giolitti prima e quella fascista poi imporranno un regime militare a un paese recalcitrante che per oltre vent’anni resisterà con accanimento, fino alla repressione finale e cruenta delle rivolte attuata da Graziani. In cambio, la Libia conoscerà una “italianizzazione” di facciata, con l’emigrazione (che è giusto definire un “colonialismo d’insediamento”, ci torneremo) di un centinaio di migliaia di italiani che occuperanno le città della costa, dove il regime farà grandi investimenti a esclusivo vantaggio dei coloni».
Quello che tutt’oggi viene definito mondo arabo fu incoraggiato dall’occidente (impero britannico) a ribellarsi con la promessa di un regno «dal Mar Rosso a Damasco», al cui interno oggi troviamo la Palestina.
«E’ anacronistico parlare allora di “mondo arabo”: questa nozione viene elaborata successivamente da vari gruppi intellettuali arabi, soprattutto in Siria e in Egitto, e poi diventa l’ideologia del panarabismo nel dopoguerra, soprattutto con Nasser. Nella Penisola arabica, invece, che prima della scoperta dei giacimenti petroliferi, nel 1938, era considerata poco più di uno scatolone di sabbia, erano presenti due istanze politiche avversarie, entrambe pre-moderne: la famiglia hashemita, guidata da Hussein che si dichiarava discendente dal Profeta Muhammad e controllava le Città sacre della Mecca e Medina, e il gruppo tribale che faceva capo a Ibn Sa’ud, un guerrigliero che fondava la sua forza, oltre che sulle armi, sull’alleanza con la setta religiosa fondamentalista wahhabita. L’Inghilterra entra in questa contesa per il dominio della Penisola e, come farà anche altrove, per esempio in Palestina, persegue una politica contraddittoria: il famoso T.E. Lawrence, Lawrence d’Arabia, appoggia gli emiri hashemiti, politicamente più evoluti, promettendo effettivamente l’estensione del loro regno fino alla Siria e ottenendone appoggio nella guerra all’Impero ottomano, con la Rivolta araba che conduce alla presa di Damasco nel 1918».
Impossibile non soffermarsi un attimo sull’accordo Sykes-Picot «per la suddivisione del medio oriente».
«Infatti, Lawrence ignorava che intanto Francia e Inghilterra si erano accordate e che la Siria sarebbe toccata alla Francia, per cui gli emiri hashemiti vengono “mollati” dall’alleato britannico e Ibn Sa’ud conquista la Mecca e poi tutta la Penisola. Come contentino, gli Inglesi assegnano al figlio maggiore di Hussein, Faisal, la monarchia dell’Iraq, un altro dei paesi “creati” dagli accordi del dopoguerra, mentre il figlio minore, Abdullah avrà nel 1921 l’emirato di Transgiordania, un’altra invenzione britannica nella regione palestinese».
…E dalla dichiarazione di Balfour che prometteva una patria per gli ebrei in Palestina…
«Torniamo alla questione: le interpretazioni della Dichiarazione, il cui testo è, come ho detto prima, volutamente contraddittorio, sono molteplici. In generale, però, nessuno pensa che l’Inghilterra volesse davvero fare un regalo agli Ebrei europei, e molti pensano anzi che volesse in questo modo liberarsene, continuando a perseguire l’idea del controllo della regione, sottovalutando l’entità e le motivazioni di chi già vi abitava, come pure la determinazione di chi arrivava, sfuggendo ai pogrom zaristi. Anche per questo, nel 1921, una parte della Palestina storica, quella più lontana dal mare, viene ritagliata, lungo il corso del fiume Giordano, e “regalata” alla famiglia hashemita, che l’Inghilterra considerava (considera tuttora) alleata. Nasce così l’emirato di Transgiordania, che diventerà Giordania dopo la Seconda guerra. Quanto alla migrazione ebraica verso la Palestina, si è trattato di un fenomeno storico singolare, non riconducibile al paradigma del “colonialismo d’insediamento” nel quale oggi si vuole costringerla (gli ebrei non avevano una madrepatria a cui tornare), che ha dato luogo alla nascita d’Israele per una serie di circostanze irripetibili, alcune sciagurate altre tragiche ma anche, non lo si dimentichi, dopo tre guerre iniziate con un’aggressione, che sono state combattute e vinte».
Quel mondo è stato diviso in stati nazionali che non hanno mai tenuto molto conto delle forze politico culturali interne ai paesi ma più che altro alle preoccupazioni occidentali.
«Alcuni degli stati creati avevano maggiore coerenza storico-culturale di altri, per esempio la Siria e l’Iraq, ma nessuno aveva una classe politica all’altezza del passaggio da provincie di un impero sovranazionale e premoderno a stati nazionali moderni. I Mandati, che ho già nominato, erano istituti creati dalle Nazioni Unite dopo la Prima guerra mondiale e assegnati a Francia e Inghilterra, con lo scopo idealista di favorire questo passaggio. In realtà, entrambi gli stati fecero una politica di potenza nei paesi affidati, favorendo la nascita di gruppi di potere clientelari che non sono sopravvissuti alla de-colonizzazione, con conseguenze spesso drammatiche per le popolazioni locali e per le élite culturali (di nuovo, pensiamo solo alla guerra civile libanese)».
Cento anni dopo il passato non è ancora passato? Lo stesso linguaggio che utilizziamo per definire quei territori, quelle popolazioni, tradisce le coordinate coloniali della sua origine?
«Cento anni sono probabilmente un periodo troppo breve ma quello che mi colpisce è la persistente cecità della politica estera degli stati occidentali e la ripetizione degli errori del passato. Per esempio in Iraq nel 2003, finito per vent’anni in un incubo settario e oggi imbalsamato da governi-fantoccio; in Egitto, oggi più che mai immobilizzato in un regime che si regge su equilibrismi diplomatici e ha pochissimo consenso interno; o in Libia, dove la cosiddetta “primavera” ha offerto il pretesto per un rimescolamento dei gruppi di potere e per un ulteriore dissesto della società libica; o, in piccolo, in Tunisia oggi, con lo scambio nemmeno velato di finanziamenti e del riconoscimento implicito di un regime autoritario, con la promessa di fermare a qualsiasi costo il flusso dei migranti. Non dico che erano meglio i tiranni di prima, ma che bisognerebbe appoggiare e dare fiducia alla società civile di questi stati, che ancora esiste, accettarne la diversa esperienza politica ed evitare di assoggettarne ulteriormente le economie, e di dare ossigeno ai capibastone locali».
Se da questo complicato quadro i britannici se ne sono lavati ben presto le mani, lo stesso si può dire che stanno facendo (ora) gli americani?
«Gli americani sono entrati con due piedi, per restare nella metafora, nella palude mediorientale dopo il 1956, la crisi di Suez, e da allora alternano tentativi di disimpegno a nuove implicazioni sempre piuttosto rovinose, guidati da obiettivi di breve periodo e da una persistente ignoranza».
Quali possono essere ora le possibili mosse di stati come l’Iran che sembra avere le mani legate non avendo ancora risposto all’affronto dell’omicidio – in casa propria – del leader di Hamas Haniyeh?
«Dopo la guerra con l’Iraq degli anni 1980-1988, che provocò centinaia di migliaia di morti fra i combattenti iraniani, l’Iran ha sempre osservato una politica militare piuttosto cauta, e quello che sta succedendo in questi giorni lo conferma. Preferisce far combattere i cosiddetti “proxies” (Hezbollah, Houthis, Siria, Hamas ) e non esporsi direttamente. Naturalmente, le cose andrebbero diversamente se ci fosse l’atomica iraniana, questo sarebbe l’elemento “game-changer” che temo di più, nel contesto attuale».
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