I democratici esultano perché sia Kamala Harris che il suo running mate Tim Walz sono partiti col piede gusto: i sondaggi che davano sempre Donald Trump e J.D. Vance in testa ora si sovrappongono e sempre più spesso Kamala vede piovere consensi e vittorie. È tutto virtuale per ora e i pollster lavorano duro con interviste capillari, cercando nuovi correttivi da applicare ai dati raccolti nelle interviste per renderli più realistici. I sindacati stanno aiutando molto i dem, e con più entusiasmo di quanto abbiano fatto in passato nei confronti di Biden. La candidata dem inoltre è ricca di una dote miliardaria lasciatale da Joe Biden e raccolta dal circolo del presidente, sicché il sole e la fortuna arridono in questo momento a Kamala, che non smette di sorridere, e anche al suo compagno d’avventura Tim Walz – che sta chiamando a raccolta tutti i luterani, perché lui è luterano. E anche milioni di americani di origine tedesca. E come la prende Donald Trump?

Con meno intemperanze del solito perché la situazione è per lui molto più seria di quanto sembrasse quando pensava di avere Biden come avversario. Non sono mancate alcune trovate a sorpresa. La più paradossale, ma non del tutto inefficace, è stata quella di schierarsi lui stesso in difesa di Joe Biden dicendo: “Questo presidente avrà anche fatto una figura penosa durante il dibattito, ma non era mai successo nella storia americana che un presidente fosse costretto a togliersi dai piedi per lasciare il campo aperto al vicepresidente. Questo significa – grida Trump, che è un complottista per vocazione – che il circolo degli Obama, dei Clinton e la ex speaker della Camera Nancy Pelosi hanno terrorizzato l’esausto Biden e se lo sono tolti dai piedi”. C’è del vero, anche se complotto è una parola grossa. Ma sta di fatto che il clan Clinton-Obama-Pelosi-Harris ha premuto finché il presidente, affetto anche da una lieve forma di Covid nella sua casa al mare nel Delaware, ha mollato. E il resto lo sappiamo.

Ma per Trump le prospettive si sono fatte molto incerte: la candidatura di Kamala Harris ha attratto tutti che temono Trump come il demonio – e sono milioni -, quale che sia la loro classe sociale, il colore della pelle o l’orientamento sessuale. Trump a questo punto ha messo in circolo una delle sue leggende nere: quella secondo cui Joe Biden, il presidente legittimo spodestato con un colpetto di Stato in famiglia, si presenterà come un cavaliere in cerca di vendetta al Congresso democratico di Chicago, per riottenere l’incoronazione perduta. Sono balle, ma girano vorticosamente sui social e sta di fatto che a questo ribaltamento Trump ha cercato d reagire rendendo pubblica la lunga e cordialissima telefonata del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Ora, Zelensky ha sempre odiato Trump e se adesso lo chiama e lo definisce un grande amico della causa ucraina, qualcosa c’è sotto. Trump ha detto di più: “Sotto le presidenze Clinton, Obama e Biden, la Russia ha sempre conquistato impunemente nuovi territori, mentre durante la mia presidenza, Putin non ne ha conquistato neppure un centimetro”.

A molti è sembrata una marcia indietro: non si illuda Putin di poter fare il suo comodo se io fossi eletto, soltanto perché lo uso come spauracchio per chi non paga il ticket della Nato. Ed è del resto proprio adesso, mentre è presidente Joe Biden e non Kamala Harris e dopo le incoraggianti parole di Trump, che il presidente ucraino Zelensky ha deciso di lanciare la più spavalda delle sue offensive inviando, armate fino ai denti, le sue migliori truppe “boots on the ground” in Russia, senza incontrare una seria resistenza. È stata la rottura del tabù. Il contrattacco nella madrepatria russa che Putin ha sempre considerato un motivo valido per l’uso delle armi atomiche. Ma se, come tutto lascia pensare, un tale increscioso sviluppo non ci sarà, il messaggio che il mondo può trarre è: l’Ucraina non è sconfitta visto che attacca, e Putin non ha vinto visto che si difende. Questa è una grande novità in cui è probabile che abbia una parte la Cina, fortemente sotto pressione americana perché fornisce ai russi molta tecnologia militare, ma non vuole una disgregazione dell’Ucraina per evitare che la stessa sorte capiti per conseguenza all’isola di Taiwan (che Pechino rivuole a tutti i costi).

Si assiste a una serie di sviluppi e coincidenze che non possono essere soltanto frutto di morti e moti di simpatia per l’uno o l’altro candidato vicepresidente, ma è chiaro che in questa fase sia il Dipartimento di Stato a giuocare la partita politica e militare su tutti e tre gli scacchieri: quello ucraino, quello del Medio Oriente e quello del Mare del Sud della Cina, dove prospera l’isola di Taiwan, madre di tutte le terre fertili per i microchip del mondo. Il ticket democratico della sorridente Kamala Harris e del suo running mate ancora più gioioso Tim Walz guadagna buoni consensi, ma non possono essere queste importanti ma ancora modeste percentuali ad aver determinato uno stato delle cose nettamente favorevole all’Occidente. Con l’Ucraina all’attacco e Israele imperterrito nella sua linea intransigente che ha quasi distrutto Hamas – anche se resta vivo e al suo posto il vero leader comandante, Yahya Sinwar, colui che dopo aver studiato Israele per vent’anni come detenuto ha concepito il piano genocida del 7 ottobre. Da questo non poteva che scaturire o la resa di Israele per impossibilità di combattere avendo il mondo contro, o la decisione amarissima ma senza deroghe di andare avanti senza tregue né pacificazioni fino alla distruzione di Hamas e del suo unico e vero demone Sinwar – che si suppone nascosto nella rete dei tubi sotterranei che costituiscono la cosiddetta “Sub way di New York”.

Lì gli stanno dando la caccia gli israeliani, ma anche gli americani e senza farsi troppo notare gli egiziani, i giordani e con basso profilo l’Arabia Saudita. E i palestinesi abitanti di Gaza sono furiosi per la nomina formale di Sinwar come capo militare e politico di Hamas, perché è l’unico uomo con cui nessuno potrà realizzare alcuna tregua. Tutto ciò sta accadendo grazie alla regia della zona buia del Deep State americano sotto la presidenza di Joe Biden, con la prudente regia del segretario di Stato Anthony Blinken, in stretto contatto con le agenzie di intelligence e la diplomazia che non lascia tracce. La Harris è molto più filopalestinese di quanto lo fosse Biden, ma gli Usa hanno appena confermato la loro intenzione di rifornire Israele di tutte le armi di cui avrà bisogno per la sua guerra, con la firma non della Harris, ma di Biden. Stranamente, ma è sotto gli occhi di tutti, le cose stanno andando meglio da quando Biden si è defilato dalla campagna elettorale restando l’unico e attivo presidente degli Stati Uniti, prendendo o lasciando che si prendano a suo nome le decisioni estremamente importanti e che gli competeranno fino al 20 gennaio del 2025, quando dovrà lasciare la Casa Bianca.

Avatar photo

Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.