Dopo qualche efficace battuta pescata dal suo repertorio di cinico furbastro, Donald Trump ha dato fuori quella sbagliata. In modo strumentale, ma ficcante, nelle settimane scorse il bifolco in toupée dorato aveva adibito a tirassegno gli equilibrismi e le irresolutezze dei democratici sui rapporti con Israele e le comunità degli ebrei. E non erano state senza effetto quelle sue sparate, tanto che gli staff di Joe Biden e di Kamala Harris si costringevano a organizzare conferenze stampa e a stendere discorsi un po’ meno vacui di riferimenti all’essenziale. E l’essenziale, che ha preso finalmente a insinuarsi tra le distrazioni dei plenipotenziari democratici, è questo: che a trattenere, torturare e uccidere un po’ alla volta la gente inerme rapita il 7 ottobre non è una vaga entità leggendaria, ma l’esercito di macellai che Israele deve neutralizzare se vuole impedire che si ripeta il pogrom di dieci mesi fa.

Il modellino comunicazionale del sopravvissuto all’attentato che – con la benda sull’orecchio offeso – sbertucciava gli avversari biascicanti sulla sorte degli ostaggi, e invitava gli ebrei a non affidarvisi, durava il tempo dettato dall’incontinenza social del candidato. Il quale, assediato dai sondaggi sul consenso montante in favore della controparte, l’altro giorno se ne viene fuori con un significativo rutto razzista nei confronti di Josh Shapiro, il governatore della Pennsylvania che Donald Trump non ha trovato di meglio che definire un “ebreo altamente sopravvalutato”.

Il fatto che Trump, assai probabilmente, non si rendesse nemmeno conto del segno platealmente antisemita della sua bella trovata aggrava (anziché attenuare) la strepitosa auto-denuncia di cui, in quel modo, si è reso protagonista. E non che occorresse ottenerla, ma è la riprova di quanto proprio qui scrivevamo settimane addietro. Vale a dire che il rapporto con Israele, con la guerra di Gaza e con il clima da Light Kristallnacht che insidia gli ebrei d’America è un particolare rivelatore di un inedito e più generale spaesamento di quella società. È il segno di uno scollamento del paese alternativamente affidato alle spettacolari vaporosità del circuito democratico o alle fanfaronate di quello che alla prima occasione aggiunge la voce antisemita al suo curriculum di gaglioffo.

Ovviamente non si decidono su questo particolare i destini elettorali statunitensi. Ma chi avesse mai pensato che in difesa di Israele e del popolo ebraico potesse proficuamente giustapporsi – contro le irresolutezze avversarie – la fermezza un po’ rozza ma dopotutto rassicurante di quel figuro, ebbene avrebbe materia per ricredersi vedendolo mentre si esercita nel dileggio dell’“ebreo sopravvalutato”.