«Quando i parenti dei miei rapitori venivano feriti dalle azioni dell’Esercito israeliano, i miei carcerieri mi picchiavano duramente e mi mettevano in isolamento per lunghi giorni senza cibo commestibile per un umano, in condizioni igieniche paragonabili a quelle dei campi di concentramento durante la Shoah». A raccontare alla Commissione legale della Knesset (Parlamento israeliano) il brutale trattamento subìto durante i 482 giorni di prigionia a Gaza è Arbel Yehoud, 29 anni, rapita il 7 ottobre 2023 dal suo appartamento nel kibbutz Nir Oz, insieme al suo compagno Ariel Cunio, ancora ostaggio a Gaza. Il suo adorato fratello Dolev è stato invece ucciso mentre cercava di difendere il kibbutz. Un’oasi di pace e serenità come molte delle comunità agricole della zona intorno a Gaza, abitate da persone pacifiste, ma colpite ferocemente nel Sabato Nero: quel giorno, circa uno su quattro dei circa 400 membri del kibbutz è stato rapito o ucciso, e in totale sono state assassinate 1.200 persone e prese in ostaggio 251, scatenando la guerra a Gaza.

Il terrore di Arbel Yehoud

Arbel è stata liberata il 30 gennaio insieme all’ottantenne Gadi Mozes, a Khan Younis, in un teatrino dell’orrore messo in piedi dai terroristi della Jihad Islamica, non a caso davanti la casa del leader di Hamas Yahya Sinwar, eliminato da Israele nell’ottobre del 2024. Hanno colpito l’opinione pubblica internazionale le immagini di questa giovane ragazza mentre cerca di avanzare in mezzo a una folla pressante di uomini che la spinge da tutti i lati. Yehoud ha raccontato il terrore vissuto durante gli attacchi aerei dell’Idf: i terroristi li minacciavano ogni volta che sentivano avvicinarsi l’Esercito. Ma, come tutti gli ostaggi liberati in questi mesi, Arbel non può trovare pace finché non saranno tornati tutti gli altri ancora prigionieri: 58 ostaggi in tutto, di cui almeno 35 sono stati confermati morti dall’Idf, mentre 20 sono ritenuti vivi, tre di questi in condizioni molto critiche. “Fisicamente siamo qui, ma mentalmente siamo ancora in cattività”, ha detto.

L’appello al governo

Da qui l’accorato appello al governo a trovare un accordo per porre fine alla guerra, e alla società israeliana ad agire. “A voi, cittadini della nazione: invito ognuno di voi a scendere in strada e a fermare la vita in tutto il Paese fino alla restituzione di tutti gli ostaggi”. Quella di Arbel Yehoud è solo una delle terrificanti testimonianze emerse in questi mesi dai racconti degli ostaggi liberati, che parlano di fame, isolamento, torture e violenze psicologiche, a cui si aggiunge anche il senso di colpa per chi è rimasto indietro e il dolore per i lutti personali. Ma ne emergono anche una forza e una resilienza che contraddistinguono un Paese sempre sotto attacco come Israele, che troverà la forza di ricostruirsi.

Ilaria Myr

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