Nel tempo in cui la giustizia si consuma sui social prima che nei tribunali, e in cui la legge si piega al ritmo del consenso mediatico, c’è qualcosa di sorprendentemente anacronistico e per questo prezioso in La giustizia raccontata. Il libro scritto a quattro mani da Luca Ponti e Luca De Pauli, avvocati di lungo corso, è un’opera che unisce la riflessione etico-professionale alla narrazione esperienziale, con lo stile leggero della conversazione e la gravitas di chi conosce a fondo le pieghe della vita giudiziaria. Che cosa vuol dire, oggi, essere avvocato? Non è solo una professione, ci ricordano gli autori, ma un esercizio di umanità in un mondo che tende a disumanizzare: l’avvocato è il soggetto che si incarica della difesa, della mediazione, dell’ascolto.

È figura tecnica, certo, ma anche e soprattutto antropologica: uno snodo sensibile tra la norma e la carne, tra l’astrazione del diritto e la singolarità di ogni vita. A suo modo, è un filosofo pratico della verità, un terapeuta della parola e un testimone del tempo. Il libro è costruito per brevi quadri tematici, quasi fossero schede o frammenti. Una forma “modulare”, direbbe qualcuno, che consente al lettore di comporre un mosaico delle diverse declinazioni della figura forense: l’avvocato penalista e quello civilista, l’avvocato d’impresa e quello investigatore, il docente e il mediatore, il comunicatore e il giurista “di sport”. Ma ciò che più colpisce non è tanto la varietà delle figure, quanto l’unità dello sguardo: una continua tensione a restituire all’avvocato il suo posto nella polis.

Non solo nell’aula di giustizia, ma nella società tutta. Ciò che ne emerge è una figura profondamente in crisi, ma non per questo minore: crisi di ruolo, di riconoscimento, di sostenibilità economica, di reputazione sociale. In un tempo in cui l’intelligenza artificiale promette di sostituire (o forse soltanto svuotare) molte delle sue funzioni, l’avvocato viene qui pensato come colui che custodisce un sapere incarnato: la capacità di interpretare il non detto, di gestire l’ambivalenza, di portare la parola giuridica oltre i formalismi. Il libro è attraversato da un doppio tono, complementare: ironico e disilluso da un lato, quasi elegiaco dall’altro.

L’autoironia sugli stereotipi della categoria si alterna a un rispetto profondo per la funzione democratica dell’avvocato, come garante delle libertà e presidio contro gli abusi del potere. Un’idea che suona antica ma che, proprio per questo, parla al futuro. In un paese che discute di riforme giudiziarie senza mai nominare davvero la cultura giuridica, questo libro è un gesto di resistenza. E, insieme, un invito: a pensare la giustizia non solo come macchina o procedura, ma come racconto condiviso. Perché, come ricorda Tommaso Cerno nella sua prefazione, “un giorno, seduti là, potremmo esserci noi”.

Luca Taddio

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