L'anniversario della strage
Lampedusa 2013, Mediterraneo tomba di migranti senza nome e sepoltura
È nero tutto intorno, scuro il mare che si dimena e inghiotte arrabbiato il peschereccio partito dalle coste della Libia che naviga faticosamente nelle acque di Lampedusa. È nero il cielo sopra quel barcone. Sono neri gli occhi delle quattrocento persone a bordo. Migranti, li chiamano. Migranti senza nome e senza sepoltura, li chiameremo poi.
È la notte più buia del Mediterraneo, è la notte del 3 ottobre 2013, quella notte si è divorata il mare e ha trascinato sul fondo chi tentava di salvarsi da morte certa perché nato nella parte sfortunata del mondo. Poi l’hanno trovata, la morte, le autorità riferiscono di 368 morti accertati e circa 20 dispersi presunti, numeri che la pongono come una delle più gravi catastrofi marittime nel Mediterraneo dall’inizio del XXI secolo. La barca, lunga venti metri, era giunta a circa mezzo miglio dalle coste lampedusane quando i motori si bloccarono, poco lontano dall’Isola dei Conigli, poi il naufragio e solo alle prime luci dell’aba, intorno alle 7,00 i primi soccorsi. Quando ormai era troppo tardi.
Altre notti e altre acque, sempre del nostro mare, racconteranno ancora numeri, storie, volti di chi è annegato su quelle imbarcazioni in balìa delle onde, delle leggi. Dopo la strage di Lampedusa, nel 2015, un barcone affonda nel canale di Sicilia: a bordo c’erano 850 persone, i sopravvissuti furono solo 28. Otto giorni dopo si consuma la strage dei bambini, perdono la vita 60 minori.
L’elenco è così tristemente lungo che per avere un’idea di cosa accade nel nostro mare, bisogna leggere i numeri, e comunque un’idea non l’avremo mai. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni il Mar Mediterraneo è stata la tomba di 26mila migranti in dieci anni. Il mare raramente restituisce corpi, identità, passato e consente una sepoltura e una preghiera, è spietato il mare. Ma nel naufragio dell’umanità c’è chi quei corpi vuole riportarli a galla per potergli restituire nome e cognome, per poter permettere alle famiglie di piangere i loro cari. È la dottoressa Cristina Cattaneo, direttrice del Labanof, il Laboratorio di Antropologia e odontologia forense dell’Università degli Studi di Milano, che cerca di rimettere insieme i dati, gli oggetti personali, quel che resta dei corpi per poter finalmente restituire nome e dignità a chi ha perso la vita in mare. Un lavoro terribile che restituisce, solo in parte, l’orrore vissuto dai naufraghi. Le violenze, la fame, la sete, la paura e le morti violente, in mare, soli, di notte.
Quella della dottoressa Cattaneo è un’impresa titanica, coraggiosa ma più di ogni altra cosa è una battaglia di civiltà. Da oltre vent’anni cerca di incrociare i dati dei cadaveri sconosciuti con i profili delle persone scomparse, di rimettere insieme i pezzi di un puzzle complicatissimo sperando che tutti gli indizi combacino e portino a un nome e cognome. Non solo corpi, non solo numeri, ma volti, storie, identità. È paradossale come il suo lavoro parli di morte ma ci insegni a restare vivi, umani, a conservare quel sentimento antico, la pietas verso i morti. Per i greci era fondamentale che il corpo dell’uomo non fosse lasciato in pasto a cani e uccelli rapaci, altrimenti la sua psyché – la parte invisibile che lo accompagnava durante la vita e che usciva dalla sua bocca nel momento in cui esalava l’ultimo respiro – non avrebbe potuto raggiungere l’Ade, il regno delle ombre; sarebbe stata allora costretta a vagare senza posa e a diventare uno spettro malefico e terribile per gli uomini. La mancata sepoltura era dunque una delle pene peggiori che si potevano infliggere a un uomo.
Si tratta di restituire dignità, rispetto, pace, anche se troppo tardi.
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