“Non perdete la testa”: c’è chi dubita che davvero Palmiro Togliatti, dalla barella, mentre lo caricavano sull’ambulanza che lo avrebbe portato con massima urgenza al Policlinico, abbia potuto sussurrare queste parole ai principali dirigenti del Pci, i vicesgretari Longo e Secchia, poi Pajetta e Amendola. Era stato raggiunto da tre colpi di rivoltella tra cui uno alla testa, era quasi in fin di vita per la perdita di sangue. Ma, pronunciate o inventate, quelle parole rispondevano di certo al suo pensiero e alla sua lucidità politica.

Dal letto d’ospedale, due giorni dopo, avrebbe così commentato con il medico personale Mario Spallone, che aveva assistito nell’operazione Pietro Valdoni, allora il primo chirurgo d’Italia, gli scontri violentissimi che divampavano in tutto il nord: “Sciagurati. Non facciano fesserie”. Longo e lo stesso Secchia, il “duro” del Pci, la testa non la avevano persa. Nessuno pensò mai di scatenare un’insurrezione che avrebbe portato a una guerra civile che i comunisti non potevano vincere. A sparare, alle 11.45 del 14 luglio 1948, era stato Antonio Pallante, siciliano, 24 anni, morto a quasi cent’anni lo scorso 6 luglio anche se la notizia è stata data solo due giorni fa. “Nazionalista esasperato”, secondo la sua stessa definizione, monarchico e militante in una formazione nata dal Partito dell’Uomo qualunque, Pallante aveva agito da solo contro l’ “agente di una potenza straniera che impediva il risorgere dell’Italia”.

I soldi per la trasferta romana se li era fatti prestare con la scusa di un possibile lavoro dai parenti: 9mila lire, delle quali 1500 erano servite a comprare un revolver Hopkink & Allen vecchio di 40 anni tondi. Funzionava bene ma con un grilletto molto duro e per Togliatti fu provvidenziale. Ancor più lo furono i cinque scadentissimi proiettili comprati dall’attentatore. Se fossero stati meno miseri il segretario del Pci non sarebbe sopravvissuto. La decisione di Pallante fu autonoma e solitaria. Però non si trattò di un gesto folle: il clima, a tre mesi dalla vittoria elettorale della Dc nelle elezioni del 18 aprile, era quello di una contrapposizione frontale e di una demonizzazione assoluta dei comunisti. Il giorno prima dell’attentato, sul quotidiano del Psdi, L’Umanità, il deputato social-democratico Carlo Andreoni, ex trotzkista, aveva scritto senza mezzi termini che il popolo italiano, prima che i comunisti lo vendessero ai russi, avrebbe avuto il coraggio “di inchiodare al muro Togliatti e i suoi complici non solo metaforicamente”.

A Roma Pallante aveva provato a farsi ricevere da Togliatti a Botteghe Oscure, sede nazionale del Partito, ed era stato messo alla porta. Grazie a due parlamentari siciliani era riuscito a entrare a Montecitorio il 13 luglio ma solo in tribuna, giusto per vedere e poter riconoscere l’uomo che aveva deciso di uccidere. Il giorno seguente si era imbattuto quasi per caso nel leader comunista che stava lasciando la Camera, con la compagna Nilde Iotti, dall’uscita secondaria di via della Missione per sfuggire, come faceva spesso, al controllo del militante incaricato di proteggerlo. Qualche settimana più tardi Stalin avrebbe spedito una rampogna durissima ai dirigenti del partito italiano, accusandoli di non aver garantito a sufficienza la sicurezza del segretario.

Togliatti e Nilde Iotti si fermarono sulla porta a parlare con un cronista politico. Quando uscirono, Pallante li seguì per alcuni passi, poi sparò tre colpi e un quarto quando Togliatti era già a terra. Tre pallottole colpirono il bersaglio: due raggiunsero l’emitorace sinistro e scheggiarono una costola lacerando il polmone ma non in modo grave. La terza, alla nuca, sarebbe stata fatale se il proiettile di terza mano avesse sfondato la calotta cranica invece di schiacciarsi contro l’osso. I carabinieri che presidiavano gli ingressi di via della Missione rimasero impietriti: fu la Iotti – che era una ragazzina, non aveva ancora 30 anni – a urlare perché inseguissero e arrestassero l’attentatore. Il leader del Pci fu portato nell’infermeria della Camera, visitato da alcuni deputati medici, quindi trasportato al Policlinico dove Valdoni lo operò tre ore dopo l’attentato.

A quel punto la notizia, confusa e incerta, si era già diffusa ovunque. L’Unità, uscita in una velocissima edizione straordinaria, chiedeva le dimissioni del “governo della guerra civile”. Nelle città del nord gli operai avevano bloccato la produzione, occupato le fabbriche e in alcuni casi, come alla Falck di Milano, sequestrato i dirigenti. I militanti comunisti, senza aspettare gli ordini della Cgil e del partito, avevano tirato fuori le armi nascoste e non riconsegnate tre anni prima, alla fine della guerra civile. Sul Monte Amiata, intorno alla centralina telefonica che permetteva le comunicazioni tra il Nord e il Sud del Paese, si stava scatenando una battaglia destinata a proseguire per 48 ore con efferatezze da entrambe le parti. Gli scioperi e le manifestazioni furono spontanei in tutto il nord, anche se la Cgil di Di Vittorio non perse tempo nel dichiarare lo sciopero generale e la Direzione del Pci, riunita mentre il ferito veniva operato, si associò stabilendo però che lo sciopero dovesse proseguire non oltre le 48 ore.

Di certo una parte del Pci dissentiva dall’indirizzo impresso da Togliatti e concordato con Stalin al ritorno dai 18 anni di esilio nell’Urss, con la svolta di Salerno del 30 marzo 1944: quello di un assoluto legalitarismo democratico e della rinuncia alla presa del potere per via rivoluzionaria. Però nessuno si illudeva su quale sarebbe stato l’esito di un tentativo insurrezionale. Il Pci non soffiò sul fuoco che divampò da solo, agevolato dalla linea dura adottata subito dal ministro degli Interni Scelba: vietò ogni manifestazione e il 15 luglio, in una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri, propose di dichiarare lo Stato di pericolo nazionale, che avrebbe comportato il passaggio della gestione dell’ordine pubblico dai Prefetti all’esercito. A fermarlo fu il no categorico di De Gasperi, per la quinta volta presidente del consiglio, che bocciò la proposta senza appello. Ma per due giorni la situazione al Nord fu davvero al limite della guerra civile: solo il 14 luglio si contarono, secondo le stime del Viminale, 16 morti, tra cui 9 poliziotti e 7 dimostranti. Due giorni dopo il contro complessivo sarebbe arrivato a 31 morti, 600 feriti, migliaia di arresti.

A impedire che la situazione degenerasse definitivamente concorsero diversi fattori. Per decenni si è ripetuta la favola secondo cui a salvare l’Italia dalla guerra civile sarebbe stato Gino Bartali, che a sorpresa e capovolgendo ogni pronostico aveva vinto il 15 luglio una della tappe più impervie del Tour de France conquistando la maglia gialla. E’ una leggenda: anche se l’impresa sportiva di Bartali può aver avuto un effetto distensivo, si trattò comunque di una elemento di minima rilevanza. Molto più incisiva fu la notizia che il leader comunista era salvo. A tutt’oggi è impossibile dire cosa sarebbe successo se, in una situazione già esplosiva, fosse arrivata la notizia della morte del capo dei comunisti italiani. Probabilmente neppure i dirigenti del Pci sarebbero riusciti a frenare la furia dei militanti e delle masse operaie del nord.

L’elemento chiave fu però proprio la determinazione del Pci nell’evitare lo scontro frontale. Il 15 luglio la Cgil annunciò la fine dello sciopero generale, senza con questo evitare la scissione della componete cattolica che si sarebbe concretizzata una settimana più tardi con la nascita della Cisl. I deputati comunisti ritirarono la richiesta di dimissioni del governo e si adoperarono per far rientrare ovunque la rivolta armata. Togliatti, una volta ripresosi, li avrebbe comunque rimproverati per aver lasciato mano troppo libera ai manifestanti. La visione del “Migliore” era ancora una volta lucida, anche sul piano puramente militare. Le carte del servizio segreto militare, desecretate e pubblicate da Giuseppe Pardini nel suo Prove tecniche di rivoluzione, nel 2018, sostengono che il Pci potesse disporre di due “grandi masse di manovra”, una nell’area Emilia-Toscana e l’altra “nel triangolo Genova-Milano-Torino”, ciascuna tra i 25mila e i 30mila uomini “inquadrati, armati e dotati di munizionamento sufficiente”, alle quali dovevano aggiungersi diverse formazioni partigiane per un totale di altri 40mila uomini.

Il rapporto di forza rispetto ai circa 200mila uomini meglio armati e meglio inquadrati di polizia e carabinieri era tale da portare alla conclusione per cui “senza sottovalutare il valore di queste forze, si può affermare che esse possono essere controllate con sufficiente sicurezza”. L’insurrezione avrebbe dunque ricondotto “il comunismo italiano sulle posizioni di partenza che esso aveva vent’anni fa”. Nessuno ne era più consapevole di Palmiro Togliatti. Pallante fu condannato a 13 anni e 8 mesi, ridotti a 10 anni e 8 mesi in appello e a 6 anni, grazie a un amnistia, in Cassazione. Era il 1953 e i pochi mesi ancora da scontare gli vennero condonati. Da allora e sino alla morte non ha più commesso alcun crimine. Ha sempre sostenuto di aver sparato “non all’uomo ma all’idea”.