Editoriali
Lavoro, lavoro. Ed ancora lavoro

Si parla spesso e tanto del lavoro. Perché è giusto. Perché è il motore della società. Lavoro significa valore, sostegno economico, miglior condizione sociale e crescita. Significa famiglia, figli. Ma per far sì che tutto ciò accada, è necessaria ( oggi più che mai) una rivoluzione copernicana. Senza impresa, non c’è lavoro. Senza imprese che investono nel tessuto di un paese non c’è economia.
L’impresa, e non l’assistenza, va messa al centro.
L’impresa è chi investe con risorse proprie per creare un valore, che non esisterebbe senza chi vi lavora, così come il contrario. Inutile cercare altre soluzioni, sarebbero fallimentari. In America, il famoso boom economico avvenne in seguito alla abbassamento della pressione fiscale. Ricordiamolo, servì a dare grande respiro e occupazione. Riuscì a dare quella spinta necessaria per svoltare pagina.
Spesso, ed in questo periodo più che mai, si usa scambiare il lavoro degli statali, dei dipendenti pubblici, sicuramente più sereni perché difficilmente potranno perdere la loro occupazione se non per motivi disciplinari, con altri lavoratori. Lo Stato, i Comuni, non creano economia, offrono servizi. Servizi alla comunità.
Non producono beni, non devono mostrare capacità di aumento di reddito o di creazione di beni, “utili a fare utili”, perdonatemi il gioco di parole. Tutti coloro che sono occupati in queste realtà, lavorano per tutte quelle aree e tematiche al servizio del cittadino e delle imprese. Sono il collegamento, il trade union che cerca di veicolare, seppur talvolta faticosamente, tra le pieghe della farraginosa burocrazia, o accogliere le istanze dei territori.
Il cosiddetto “pubblico” non produce beni, ma offre servizi. Lavoro non è servizio, ma è ( quindi) Impresa. Ma una impresa, crea lavoro se produce. E produrre non significa solo ideare, progettare e poi rendere tangibile ( quindi reale) un prodotto per fare unicamente profitto. Una delle più famose teorie, quella keynesiane, fu alla base del New Deal, ovvero un piano di interventi pubblici finanziati dallo Stato adottato negli Stati Uniti d’America sotto il presidente Roosevelt che permise agli USA di uscire dalla crisi.
Perché fu vincente? Perché affrontò la tematica della legislazione economico sociale, affermando che l’intervento dello Stato opera cercando di avvicinare i punti di partenza e sviluppo secondo due linee:
– l’abbassamento delle imposte, di cui l’uso vada veramente a vantaggio della collettività e cioè, quando le minoranze chiamate a pagarle, sanno che sono state determinate per raggiungere realmente obiettivi reputati buoni.
– L’innalzamento dal basso, che si ottiene con un efficace uso delle imposte. Si fa in modo che ogni uomo in una società, disponga di un certo minimo di reddito; questo minimo non è un punto di arrivo ma di partenza che assicura la possibilità a tutti di progredire.
Secondo i neoclassici le forze di mercato hanno la capacità di condurre il sistema economico al pieno impiego delle risorse, senza alcun bisogno di intervento pubblico da parte del governo ( policy maker ). È sufficiente lasciar funzionare il mercato. Questa visione è, tuttavia, messa in crisi dai fenomeni economici osservati alla fine degli anni ’20. La crisi del 1929 aprì un prolungato periodo di depressione economica da cui le potenze occidentali non sembravano riuscire ad uscire.
Il crollo dell’economia provocò la caduta della domanda e la riduzione della produzione, cui seguirono la disoccupazione e la mancanza di investimenti ( stagnazione ).
La chiave della spiegazione che Keynes dà della disoccupazione sta nel fatto che il comportamento del sistema economico nel suo complesso segue regole diverse da quelle dei singoli. Ad esempio, se io sono una persona senza assicurazioni sociali e con reddito medio, l’oculatezza mi suggerisce di risparmiare, nell’eventualità che il mio reddito futuro si riduca o per far fronte ad evenienze negative (malattie, vecchiaia). ( e questo è ciò che sta avvenendo oggi a causa del Covid)
Ma dal punto di vista del funzionamento del mercato nel suo complesso o, come si dice, guardando al sistema economico da un punto di vista aggregato ciò (ossia, il risparmio) che può essere buono per il singolo, può essere deleterio per la collettività.
Riprendiamo l’esempio dell’atto del singolo che risparmia ed estendiamolo all’intero sistema economico. Supponiamo che per qualche ragione, anche giustificata dal punto di vista di ognuno, come la condizione in cui da qualche mese siamo, tutti decidano da un momento all’altro di consumare di meno e risparmiare di più: non comprano più un nuovo televisore o telefonini, riducono la spesa per ristoranti e cinema o altro, comprano cibo di qualità peggiore, ecc.. La conseguenza sarà che la domanda di tutti questi beni si riduce e, se questa situazione si protrae, le fabbriche di apparecchi TV, di telefonini di cibo, i ristoranti, ecc. riducono la produzione, riducono i programmi di investimento (ossia i programmi di acquisto o ammodernamento di impianti) e prima o poi licenziano i propri dipendenti. Questo si ripercuote anche sui produttori di impianti, sulle aziende che producono mezzi di trasporto, ecc.. L’effetto del minore potere d’acquisto (reddito) messo in circolazione a causa dei licenziamenti e della riduzione degli utili di queste imprese sarà di far diminuire ulteriormente i consumi e quindi la domanda di apparecchi tv, ecc., con ulteriori effetti negativi sulla produzione e l’occupazione. Ecco che serve un piano.
Partire in primis da una messa in sicurezza, e poi da una base minima di sussistenza che non è assegnare un reddito a prescindere, ma occupare comunque i soggetti in formazione e quindi, occupazione.
Sinergia con le imprese : stage finalizzati alla crescita. Cosa può fare la politica, in questo ambito? Ha un grande compito: cambiare il lavoro, trasformare la sussistenza in realizzazione. Da paura a responsabilità, da bisogno e desiderio. Da investimenti a opportunità di crescita economica, e occupazionale con l’aiuto dello Stato, e del mondo del credito. Serve mettere in campo energie nuove, idee, attraverso la costruzione di progetti professionali, e d’impresa, sia nel lavoro autonomo che nel lavoro dipendente, per costruire il futuro. Senza guadagno, sia l’impresa che il mondo del lavoro, non avranno l’autonomia economica, la responsabilità’, la possibilità di scelta. La libertà.
La politica che non si occupa di questo, per scelta o per incapacità, e lascia le persone nella paura, nella disperazione, nel ricatto sociale, è la peggior politica. Ma ancora peggior politica è quella che non risolve il grande intrigo melmoso della burocrazia, della ignoranza dei meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro che ostacola ( di fatto) il fare l’impresa e la creazione attiva di posti lavoro. Che non investe in formazione, in crescita culturale.
La peggior politica è quella che spende soldi pubblici in sussistenza, come con il reddito di cittadinanza, o/e per i navigator, inutili e senza futuro perché senza imprese, formare e trovare occasioni di lavoro per i disoccupati, diventa impossibile.
La peggior scelta politica è quella che non supporta il mondo del lavoro autonomo, le partite iva per intenderci, specie in frangenti come questi, dove c’è lo zero assoluto in termini di aiuti.
Se da una parte c’è un mondo di imprese che chiude, dall’altra c’è un mondo di persone che ricadranno inevitabilmente sulle spalle dello Stato. Quindi, di tutti noi.
Ripartiamo da qui, perché se sosterremmo le imprese, con progetti socio economici mirati, agevolando la produzione nel nostro paese, sfavorendo la delocalizzazione attraverso maggiori opportunità, anche con assunzioni meno onerose, non in termini di stipendio ( si badi bene!) ma di tassazione minore e defiscalizzazione degli oneri, detrazione costi e incentivi, formazione e coinvolgimento negli utili, daremo risposte responsabili a quel mondo che vuole solo lavorare, non ricevere l’assegno a casa. E l’economia tornerà ad essere circolare.
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