Celebriamo quest’anno i dieci anni della legge Golfo-Mosca. Dopo molti mesi difficili per tutti ed in una congiuntura che per le donne, stando alle statistiche internazionali, si è rivelata particolarmente sfavorevole. Secondo l’ONU, nella fase post-Covid le donne sono esposte per il 24% in più rispetto agli uomini alla possibilità di perdere il lavoro ed incorrere in marcate contrazioni del proprio reddito.
Con la conseguenza che il divario retributivo di genere si è ulteriormente ampliato: il World Economic Forum, nel suo ultimo Report, evidenzia che per colmare il divario di genere globale ci vorranno 135,6 anni. Durante il suo intervento al summit del Woman20, che si è tenuto negli scorsi giorni, anche il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni ha affermato che «La presenza di donne all’interno dei contesti lavorativi e professionali, secondo dati statistici garantisce una crescita e uno sviluppo importante alle aziende».

Effettivamente, sono numerosissime le evidenze empiriche che dimostrano come, elevando la quota di donne presenti nei board o nelle posizioni apicali delle aziende, anche a livello manageriale, la performance complessiva aumenti. Tra le altre, la Curtin Business School di Perth (Australia) dimostra in una recente ricerca che le donne manager migliorano la performance delle aziende. La ricerca si basa su un’analisi durata sei anni sui dati di compagnie australiane raccolti dall’Agenzia federale sull’uguaglianza di genere sui posti di lavoro, la Workplace Gender Equality Agency (sì: in Australia hanno un’agenzia apposita). Le evidenze? Ad esempio, che le compagnie guidate da amministratrici delegate hanno migliorato il proprio valore di mercato del 5%. Ma anche, che aumentando di almeno il 10% il numero di donne in altre posizioni di leadership, il valore di mercato dell’azienda è migliorato del 6,6%. O ancora, che a livello di consiglio di amministrazione, aumentando di almeno il 10% il numero di donne, il valore di mercato dell’azienda è aumentato del 4,9%.

Ed è vero anche per alcuni settori nei quali la presenza delle donne è ancora marginale. Come, ad esempio, il settore finanziario: il Rapporto Women in Financial Services 2020 mostra che nell’industria finanziaria le donne sono presenti per il 20% nei comitati esecutivi e per il 23% nei board. Secondo questo Rapporto, una maggiore presenza femminile in ruoli di responsabilità aziendale genera «un’opportunità di maggiori ricavi per 700 miliardi di dollari grazie a un migliore servizio alle donne clienti.» Ed afferma ancora che: «In un settore da 4mila miliardi di dollari di fatturato, che attualmente cresce al di sotto dei tassi di crescita del PIL, questa è probabilmente la più grande opportunità di crescita singola disponibile». Quindi, un grande potenziale inespresso.

Che, contrariamente a quanto potremmo immaginare, non viene colto neppure dalle grandi multinazionali del settore tecnologico, all’avanguardia sotto molti profili nella gestione della vita aziendale. Anche in queste aziende, infatti, le donne al vertice sono una minoranza. Sono le stesse multinazionali a fornire i dati (peraltro, aggiornati a giugno di quest’anno). In Amazon, per esempio, il 45% della forza lavoro è costituita da donne. Ma quando arriviamo ai dati sulle posizioni apicali, nei ruoli dirigenziali troviamo solo il 29% di donne. O anche in Google, mentre le donne rappresentano il 33% della forza lavoro complessiva, ricoprono solo il 28% dei ruoli apicali (che scende al 25% nell’area maggiormente tecnologica). Dati in linea, tutto sommato, con quelli rilevati dal World Economic Forum a livello mondiale: le donne nel mondo rappresentano ancora solo il 27% delle figure manageriali.

E nel nostro paese, quali sono i risultati conseguiti grazie all’applicazione della legge Golfo-Mosca? Stando all’ultimo rapporto della Consob relativo ai dati del 2020 sulle società quotate, le donne ricoprono quasi il 39% degli incarichi di amministrazione e di controllo. E, tra le 76 società quotate che hanno rinnovato la composizione del board, la presenza delle donne nell’organo amministrativo rappresenta il 42,8% del totale. Un ottimo risultato, quindi, soprattutto nei termini dell’accelerazione di un processo di transizione culturale che altrimenti avrebbe richiesto molto più tempo. Possiamo quindi dare per realizzata la parità di genere nei vertici aziendali? No, sfortunatamente. Perché, sempre nel 2020, le Amministratrici Delegate sono appena il 2% del totale delle società quotate. E le Presidenti sono meno del 4%. E, come mostra la ricerca pubblicata dall’Associazione European Women on Board sull’Europa, in termini di leadership femminile il nostro Paese è ancora lontano dai benchmark dei paesi più virtuosi: mentre in Italia, nelle posizioni direttive apicali, le donne sono ferme al 17%, in Norvegia, ad esempio, raggiungono il 33% del totale. C’è ancora molta strada da fare, quindi. Ed è una strada che conduce ad un maggiore benessere complessivo: come dimostrano i dati dell’EIGE (European Institute for Gender Equality), un miglioramento in termini di uguaglianza di genere può condurre ad un incremento di PIL fino al 12% entro il 2050. Un’occasione da non perdere.