Quando Derrida visitò tra il 1989 e il 1990 i college americani, lo fece per presentare alcune conferenze che poi sarebbero state raccolte nel volumetto ‘Forza di Legge’: uno dei due saggi, ‘Nome di Benjamin’, suona come materiale che nelle mani sbagliate potrebbe essere eretto a manifesto programmatico di legittimazione della violenza.
Nel saggio, Derrida legge in chiave provocatoria l’opera di Walter Benjamin, ‘Per la critica della violenza’, risalente al 1921: l’assunto di Derrida è quello di una riflessione, mediante metodo decostruttivo, sulla distruzione, al fine di chiedersi quale sarebbe stato il pensiero di Benjamin sulla soluzione finale nazista.
La ‘violenza’ non sta nel fatto che si ricostruisce il pensiero di un filosofo morto sotto l’avanzata del nazismo, ma che come criterio di valutazione del pensiero di Benjamin venga utilizzata proprio la soluzione finale hitleriana.

Il saggio è erudito e articolato ma soffre di un complesso strutturale che accomuna decostruzionismo e cultura della cancellazione: la falsificazione concettuale.
Tanto il decostruzionismo quanto la cultura della cancellazione hanno necessità, endemica e quasi biologica, di far scomparire il soggetto dalla loro narrazione: non importa la veridicità degli assunti, la scientificità o la plausibilità metodologica perseguita, conta soltanto lo scopo finale, quasi mistico, della giustizia sociale.

In un interessante saggio del 2013, apparso sulle pagine della rivista Scienza e Filosofia, ‘Le relazioni pericolose. Fraintendimenti, beffe e falsi tra scienze e humanities’, Francesca Romana Capone ha dimostrato come assai spesso i nomi celebri del decostruzionismo contemporaneo, da Lacan a Latour, passando per Deleuze e Guattari, abbiano abusato di termini roboanti presi di peso dalle scienze dure, sbagliandone completamente il senso. In poche parole, falsificando. Ciò che è davvero interessante è l’idea che nessuno dei falsificatori, messo alle strette, abbia mai dimostrato il minimo imbarazzo. Nessuno dei loro sostenitori si sentirebbe tradito nello scoprire che gran parte dei termini scientifici usati dai loro beniamini siano utilizzati in maniera fallace.

Per farsi scudo davanti sensate e motivate critiche, si sono azionati dispositivi corporativi di difesa, una sorta di principio di autorità secondo il quale se un dato venerato maestro asserisce una bestialità lo sta comunque facendo pour cause. Se i fatti contraddicono la teoria, sembrano suggerire, tanto peggio per i fatti. Un pensiero che espunge l’essere umano dal riconoscimento di una dignità ontologica, relegandolo a mera comparsa di un gioco sociale del tutto ideologizzato. Quando il mondo accademico legato alle teorie critiche della sessualità, come queer e gender studies, venne squassato dalla beffa conosciuta come affaire Sokal, la reazione finale non fu di seria o severa riflessione ma di feroce critica a chi aveva dimostrato tutta la loro scarsissima scientificità.

Il professore di fisica Alan Sokal, di orientamento liberal, sul finire degli anni novanta disgustato dalla totale assenza di metodologia scientifica in alcuni nuovi rami delle scienze sociali e soprattutto in quelle che maggiormente attingevano al decostruzionismo, come la teoria critica razziale e i gender studies, elaborò un testo assolutamente non-sense, ma strutturato indulgendo negli stilemi stilistici stereotipici di quel mondo.

Il ‘saggio’, Trasgredire le frontiere: verso un’ermeneutica trasformativa della gravità quantistica, venne incredibilmente pubblicato sulle pagine della rivista Social Text, nel 1996. A riprova della giustezza dei suoi assunti di partenza, ovvero la totale mancanza di serietà metodologica, tanto delle nuove leve quanto dei maestri del decostruzionismo e delle teorie critiche, Sokal pubblicò un ampio volume sempre in quegli anni, dal titolo ‘Imposture intellettuali’, nel quale dava conto delle peggiori bestialità scritte dai pezzi da novanta del post-strutturalismo. L’esperimento sarebbe stato replicato alcuni anni dopo, da parte di altri ricercatori. Anche in questo caso, il risultato fu sconcertante.