Il prossimo sei giugno Milo De Angelis compirà settant’anni: siamo in molti a considerarlo, dopo la scomparsa dei vecchi maestri, da Mario Luzi a Andrea Zanzotto, il poeta italiano più importante dei nostri tempi. Per quanto mi riguarda, tale convinzione, anticipata già nel libro che gli dedicai alla metà degli anni Novanta, Patto giurato (Tracce, Pescara, 1996), trova la propria radice in una speciale sintonia estetica che oggi potrei definire come la Passione del Nome Proprio. Stilare gli elenchi di luoghi e persone significa far suonare la campanella del giro finale. I giudici sul traguardo hanno già in mano i cronometri. Non c’è più tempo da perdere, bisogna andare alla sostanza.

Prendiamo la recente folgorante raccolta, Linea intera, linea spezzata (Mondadori, pp. 104, 16 euro), una delle sue più belle perché stavolta l’intensità semantica, senza rinunciare al rigore percettivo, è pari a una nuova visibilità: frutto interno della tensione espressiva e mai semplice gioco di polso. Titolo alla Piet Mondrian: se vogliamo interpretare la realtà, inquadriamo il suo spazio, poi prepariamo i colori. Sin dai primi versi il richiamo ai severi nuclei etici dell’adolescenza milanese annuncia la nostra finitudine: “Sali sul tram numero quattordici e sei destinato a scendere / in un tempo che hai misurato mille volte / ma non conosci veramente.” Da quel momento la toponomastica è una carta che brucia, “si svuota più veloce la clessidra”, come le nostre esistenze: via Cadamosto coi giocatori di biliardo in Sala Venezia, le acque dell’Idroscalo. Chissà forse la vita “continuerà altrove”. Certi dettagli paiono lancinanti: “il dentino marcio che sentivi crescerti dentro”, il venerato mondo greco, fatto di “scudi e leoni di pietra”, indimenticabile regno di Gianni Hofer, il più talentuoso fra i compagni di classe, finito pazzo “con un lampo negli occhi e poi fino all’ultimo giorno”.

Negli squarci aperti dalle immagini liriche di un passato non troppo distante che pure sembra già caduto nel vuoto, intravediamo Milo bambino fare “il biglietto dell’autoscontro” (alcuni rintocchi della memoria sono di gran pregio: “le crepe sul volante, la luce obliqua dell’insegna”), e ci riconosciamo in lui. Quando, giovane ardito nella vertigine della precoce vocazione, guarda affascinato dal terrazzo “la città notturna, l’infilata dei grattacieli che sembrano / una barriera corallina”, o quando torna a scuola, per lo scrutinio conclusivo, al Liceo Manzoni, “e tutto è silenzioso nei corridoi, / tutto è silenzioso per sempre”, abbiamo l’impressione che stia parlando anche di noi.

Chi è questo giocatore di bowling, “grande Lebowski”, impegnato a raggiungere “il cuore del punteggio / con il gioiello della mano destra”, se non uno che si è perso “tra i gessetti dell’ultima aula a sinistra” e adesso, sotto “il ritratto del famoso / Professor Lucio Bini” (uno degli ideatori dell’elettroshock), fa l’appello dei morti rievocandoli, con dolcezza e tremore, nei parchi “dove dormono i ragazzi dopo le partite”, “nei “cinema sperduti / delle periferie”, nella “luce dei baracchini”, “fra le risaie della Barona”, sull’autobus “Cinquantasette”? Nell’istante in cui crede di rivederli, scopre il proprio nome scritto sul cemento di una vecchia piscina, dov’era entrato passando attraverso “una rete sgangherata”. Non un impianto sportivo qualunque. No: la Scarioni, leggiamo poche pagine dopo, quella, supponiamo, in via Valfurva 9, col “rettangolo azzurro”, il trampolino giù in fondo e la vasca dei “cinquanta metri.”

I dialoghi che ci sfilano davanti come torce nel buio hanno davvero le ore contate. Bisogna affrettarsi perché da un momento all’altro la visione rischia di scomparire. L’autore scende nei parcheggi sotterranei a scambiare quattro chiacchiere con il fratellino tifoso del Milan che gli parla di Liedholm, “gran signore”, “Schiaffino, detto Pepe, che giocava sul campo / ma osservava la partita dall’alto di una torre”. Entra al Centro Schuster e incrocia Drino Danilovič, il suo allenatore, ancora pronto a snocciolargli, in araldica scansione, le tre regole del bene: “portare il pallone nel soffio / della prima altalena, portare ogni dribbling in un balletto / astrologico, trovare in una stella / l’attimo giusto per il calcio di rigore.”

Tornano, come incancellabili spuntoni di roccia dopo la mareggiata, gli incontri che hanno segnato, scolpito e ferito la vita: Luigi Tenco a Ricaldone, Monferrato, poco prima del suicidio sanremese; Alberico Sala, critico e scrittore, sotto la casa di viale Majno (“Io ho creduto / nella tua poesia, Milo, sono stato il primo e ora / ti dico vieni qui, presto, prima dell’ultimo volo.”); il vecchio amico dell’Università Statale, col viso “sbranato dalle rughe”, che sempre chiedeva “da che parte stai da che parte stai e io ti dicevo / sorridendo che la poesia non sta dalla nostra parte / ma in un luogo tremendo e solitario, dove nessuno / resta intatto”; la prima ragazza, rivista all’Autogrill Cantalupa, “davanti alla porta girevole, in un profumo di caffé / e di vecchi panini”; Federica, ex compagna di banco, ritrovata alla pensione Iride, “prima delle grandi pianure”; “l’amico delle feste lussuose, l’amico / dei golf di cashmere e le scarpe di Brigatti”, “tra gli autobus di Lampugnano”.

Nessun effetto Spoon River. È uno strapiombo di vecchi bar degli anni Settanta, in viale Certosa, dalle parti del cimitero di Musocco: lì si stendono i consuntivi. Che non sono mai consolanti. E restano sempre solenni, inesorabili, definitivi, come sapeva l’amato Pavese. Chi ha voluto salvarsi “dal paradiso celeste / o socialista, per tornare finalmente tra gli eroi”, com’è finito? Eccolo qui. Il poeta, “che fu bello e giovanissimo” si fa un autoritratto spietato fra i carrelli dell’Esselunga, “nel garage delle voci tarlate” dove si presentano “i risvegliati” “con la pece nella mano e le uova di luce scossa”: Daniele Limonta, Guido, Stefanella

È questo, io credo, il punto culminante dell’opera, un vertice della letteratura italiana contemporanea, che si chiude nel culto dell’amicizia virile, spartana, con il “penultimo discorso di Daniele Zanin”, compagno fantasmatico dagli “occhi forati e le lacrime di piombo”, il quale sale sul tetto e, nemmeno fosse Steve Cochran, nel Grido di Michelangelo Antonioni, “tra le foschie del Polesine, tra i demoni segreti / di un uomo solo, tra le cose infinitamente taciute”, in mezzo alle antenne che si muovono nel vento, urla devoto a tutto il quartiere, riunito lì sotto ad ascoltarlo, il suo antico furore: ciò che avrebbe voluto essere e non è stato e non sarà più.