Spesso la letteratura aiuta a capire la storia più di quanto i manuali possono fare. In occasione del sessantesimo anniversario dell’indipendenza congolese, il sovrano belga, re Filippo, ha chiesto pubbliche scuse per le ferite coloniali inferte dal suo Paese alla repubblica democratica centroafricana. Vecchi scheletri lasciati per lungo tempo nascosti negli armadi sono tornati ad affacciarsi gettando lunghe ombre sul tormentato passato europeo. Quali, fra le antiche nazioni del Vecchio Continente, le stesse che oggi si fanno belle fra Bruxelles e Strasburgo, potrebbero dire di avere la coscienza pulita?

Forse nessuna. Noi italiani abbiamo fatto la nostra brutale parte in Africa in un periodo storico tutto sommato abbastanza ristretto. Per quanto riguarda l’Olanda, i suoi misfatti asiatici risalgono al diciassettesimo secolo quando le isole di Sumatra, Giava, il Borneo e le Molucche caddero sotto il dominio della Compagnia delle Indie Orientali capitanata dai mercanti di Amsterdam e Rotterdam. I Paesi Bassi governarono l’Indonesia fino alla Seconda guerra mondiale. L’indipendenza giunse solo nel 1949 dopo che i movimenti nazionalistici, guidati dal presidente Sukarno, misero fine anche all’effimera egemonia dei giapponesi che, sfruttando il vuoto di potere causato dall’invasione nazista, nel frattempo s’erano insediati in Oceania dove spadroneggiarono fino al momento in cui vennero sganciate le bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki.

Tutto questo è lo specchio interno di un romanzo in molti sensi straordinario: L’inquisitore di Giava di Alfred Birney (Mondadori, pp. 463, 15 euro). La stessa estrazione indo-olandese dell’autore, nato a L’Aia nel 1951, introduce al tema profondo del libro: da cosa deriva la nostra identità? Dalla lingua? Dal luogo in cui siamo nati? Dai genitori che abbiamo avuto? Dalle idee che ci sono state inculcate? Dagli incontri che ci è capitato di fare? Si può scegliere ciò che si diventa, oppure siamo destinati ad essere quello che siamo? È sempre difficile per chiunque rispondere a queste domande, intime e politiche al tempo stesso, ma nel caso di Alan Noland, il protagonista narrante del testo, l’impresa pare addirittura azzardata. Egli infatti, scrutinando le memorie del padre Arto, figlio peraltro non riconosciuto di un europeo e di una indigena, scopre il suo oscuro passato, caratterizzato da crudeltà quasi indicibili.

Arto le aveva perpetrate, quale agente coloniale al servizio della dinastia degli Orange, ai danni della popolazione locale a cui lui stesso tuttavia, seppure parzialmente, apparteneva: interrogatori brutali, omicidi, soperchierie, nefandezze,con passaggi improvvisi da uno schieramento all’altro. Un po’ eroe, un po’ spia, un po’ traditore, quest’uomo torvo e rude dalla giovinezza incendiaria, cresciuto a Giava come un indish, meticcio spesso inviso a entrambi i popoli il cui sangue scorre nelle sue vene, sarà costretto ad abbandonare la terra d’origine dove molti lo ritengono un traditore e altri un salvatore. Dopo essere approdato ad Amsterdam, quale marinaio fedele alla regina Giuliana d’Orange, avrà subito voglia di tornare indietro, fra i suoi amati indigeni, ma non potrà farlo. Così trascorrerà gli ultimi anni a Malaga, da vero espatriato, pensionato di lusso, esule inconsolabile, mercenario privo di radici. «Era impazzito durante la guerra o era nato proprio così?» si chiede il figlio, chiamato a sanare in se stesso i dissidi del padre. E scrive: «Doveva avercelo avuto dentro. Aveva solo bisogno di uno scenario per manifestarsi. Karma. Sfortuna. Maledizione. Whatever». Fino alla frase più importante: «Non importa, non abbiamo il controllo sul tipo di persona che siamo quando veniamo al mondo e sulla strada che seguiremo nella vita».

Alfred Birney, nel suo resoconto impietoso, travolgente, spesso informe e traumatico, comunque doloroso, ci consegna lo spartito delle cosiddette “seconde generazioni”, nelle quali egli si riconosce: una musica cupa e solenne che, a ben pensare, riguarda tutti noi, perché nessuno può illudersi di appartenere soltanto a se stesso. È la canzone a volte triste ma sempre affascinante del sangue misto: imparare ad ascoltarla diventa imprescindibile, se non vogliamo che le società multiculturali si riducano agli articoli di legge presenti nei codici. Questo significa anche progettare una scuola capace di far maturare tale consapevolezza nei più giovani.

Possiamo dire che oggi l’Olanda e l’Indonesia siamo noi. Mentre gli emigranti avanzano verso l’ignoto e piantano le loro bandiere sulle nuove terre in cui sbarcano, i loro discendenti, avuti magari, con la dolcezza o con l’arroganza, dalle donne o dagli uomini del posto, dovranno affrontare e risolvere il compito di fondere le diverse culture di cui sono il frutto. Se i padri non lo fanno, saranno i figli a dover tappare i buchi. Non sarà semplice, si tratterà di mettere insieme violenza e amore, ma da questa promiscuità, ricordiamolo anche a chi ottusamente s’illude di poterla evitare, nascerà la civiltà del futuro.