L’ ufficiale e la spia non è solo un bellissimo film che racconta la storia di Dreyfus, il caso più clamoroso degli ultimi secoli di una persona condannata ingiustamente, racconta anche la storia del suo regista. Roman Polanski è Dreyfus, il j’accuse lanciato dallo scrittore francese Emile Zola nel 1898 vale anche per lui: io vi accuso con questo film di avermi perseguitato in tutti questi anni, ma sono innocente. Il j’accuse di Polanski è contro il processo mediatico, contro la gogna che da anni gli impedisce di condurre una vita normale. Appena parte una caccia alle streghe, la prima vittima è lui, uno dei più grandi registi del mondo, che questa volta, con questo film ha voluto dire basta. Nel 1895 il capitano ebreo Dreyfus viene condannato con l’accusa di alto tradimento sulla base di documenti falsi. La vera spinta è l’antisemitismo che in quegli anni si sta affermando in Francia e in tutta Europa. Nel film, ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore Robert Harris, si racconta la riapertura del caso perseguita dal colonnello Picquart, che divenuto capo dei servizi segreti capisce come si tratti di una grande montatura. Sostenuto dallo scrittore Émile Zola riesce a ottenere un nuovo processo che si conclude con l’assoluzione di Dreyfus. Zola, che con il suo articolo J’accuse pubblicato sul quotidiano socialista L’Aurora smuove le coscienze, è morto da quattro anni. L’antisemitismo non è venuto meno, ma il capitano può lasciare l’isola della Caienna dove era tenuto prigioniero. L’Europa è ancora attraversata dall’odio nei confronti degli ebrei, l’orrore deve ancora compiersi. Orrore che coinvolgerà anche la famiglia di Polanski: la madre verrà deportata ad Auschwitz dove morirà. Con l’assoluzione di Dreyfus non si evita il diffondersi del virus antisemita, ma si evita un grande errore giudiziario e si indica al mondo, ieri come oggi, come l’esercizio del dubbio faccia parte della giustizia. Che non c’è giustizia senza la presunzione di innocenza. E che l’accanimento, la lapidazione, la gogna, non sono mai, mai e poi mai, fonte di civiltà.

Difficile, anzi impossibile, non leggere in questa trama la storia di Polanski. Nel 1977 viene accusato di violenza sessuale ai danni dell’allora tredicenne Samantha Geimer. Lui aveva 44 anni ed era ospite nella casa di Jack Nicholson. La condanna, dopo un patteggiamento, è per un “rapporto sessuale extramatrimoniale con una persona minorenne”. Per il giudice non c’è stata violenza sessuale. Polanski viene incarcerato in un ospedale psichiatrico per 42 giorni dove viene elaborata una perizia che consiglia una pena detentiva con la condizionale. Ma saputo che il giudice non avrebbe accolto l’indicazione dei medici, il regista fugge. Sono anni di grandi film, importanti riconoscimenti, ma il regista di Per favore non mordermi sul collo sarà sempre inseguito dal passato. Il 26 settembre del 2009, sulla base di un mandato di cattura internazionale, viene arrestato in Svizzera. Passa due mesi in carcere e poi ottiene i domiciliari. Negli anni si sono alternati appelli in suo favore, appelli contro, condanne mediatiche, nuove denunce, difese inaspettate come il documentario di Marina Zenovich (Roman Polanski: wanted and desired) in cui si parla di un conflitto di interessi da parte del giudice che lo condannò negli Usa o le parole di Samantha Geimer che da anni chiede di lasciare in pace il regista e che il caso venga chiuso definitivamente. Più volte si è lamentata del voyeurismo che c’è nel modo in cui giornali rievocano o usano il suo caso e, sempre dalla parte delle donne, si rifiuta però di venire strumentalizzata: «Non ho alcun bisogno che gli altri parlino per me o si ergano a miei protettori». Ma la storia è troppo ghiotta per non continuare a perseguitare Polanski per un caso accaduto 42 anni fa.

La nuova caccia contro di lui è partita durante l’affermazione del movimento del Me too: una battaglia sacrosanta contro le molestie sui luoghi di lavoro, che però ha spesso assunto i toni tipici del giustizialismo. Si è molto discusso se in nome della lotta alle molestie e alla violenza sessuale si possa giustificare il venire meno dei capisaldi dello Stato di diritto. Secondo molte e molti sì, è giusto. Secondo pochi e poche no. C’è stato un dibattito internazionale, a cui hanno partecipato grandi scrittrici come Margaret Atwood, la quale – «anche a costo di sembrare una cattiva femminista» – ha insistito: la presunzione di innocenza non si tocca. E non si tratta certo di dar ragione a chi, anche nell’Italia di oggi, pensa che la maggior parte delle denunce di stupri sia falsa. È esattamente il contrario: proprio perché si crede alle donne che denunciano, si pretende che chi è accusato si possa difendere. Se viene meno lo Stato di diritto, se la Costituzione diventa carta straccia, le prime a pagarne le conseguenze sono le donne. Non è con i processi mediatici, con le gogne pubbliche, che si risolve un tema così delicato. Lo dimostrano anche i dati di questi giorni: più manette non ha significato meno donne uccise. Anzi. L’ufficiale e la spia parla di noi. Dietro i processi sommari si nascondono gli incubi e gli orrori della Storia. L’ingiustizia, la persecuzione, il linciaggio, non creano un mondo migliore, ma sono la breccia attraverso cui si insinua l’inciviltà. Polanski, a differenza di tante persone che non possono difendersi, lo ha potuto fare (finora?) continuando a realizzare i suoi film. Questa volta lo fa con un’opera che attinge con forza alla storia del cinema e dell’arte. L’ufficiale e la spia ci aiuta a capire non solo perché racconta la storia di Dreyfus, ma per come la racconta: ci fa esperire direttamente quello che provano i personaggi, ci permette di identificarci nella disperazione di chi non viene creduto ed è innocente (Dreyfus è interpretato da Louis Garrel), ci permette di sentire direttamente la forza che muove il colonnello Picquart (un bravissimo Jean Dujardin) quando capisce l’errore che è stato commesso. Oggi non ci identifichiamo più nelle debolezze altrui. Siamo solo pronti a puntare il dito, a salire su un piedistallo.

Il cinema è ancora quel magico dispositivo che permette di vivere le storie non nostre, di vivere il dolore dell’altro. L’anno in cui Dreyfus viene condannato, nasce proprio a Parigi il cinema dei fratelli Lumiére: dopo più di un secolo il cinema è ancora una risorsa per raccontare storie e metterci nei panni dell’altro. Oggi esce nella sale anche il film di Woody Allen, Un giorno di pioggia a New York. Viene proiettato nei cinema in Europa, ma non in America. Per un anno è stato censurato da Amazon, che lo ha prodotto, dopo le nuove accuse rivolte al regista da parte della figlia e dopo l’incalzare del movimento Me too. Allen era stato oggetto di una indagine poi archiviata. Ma anche nel suo caso, il processo mediatico non finisce mai: non c’è una sentenza definitiva, ma una pena assoluta e prolungata nel tempo. Mi chiedo e chiedo: si risolve così la violenza contro le donne, si cambia così la cultura che c’è dietro le molestie, si cambia così la società? No, così si indebolisce la Costituzione e la cultura che rappresenta. Si alimenta la caccia alle streghe e si creano nuovi casi Dreyfus. Polanski lo dice a chiare lettere, forse vale la pena ascoltarlo.

Angela Azzaro

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