Quando leggo i ranking degli atenei mi vengono in mente due storie. La prima è quella di un professore dell’Università di Firenze (che nel frattempo è andato a insegnare a Singapore), e di un bando della UE al quale aveva partecipato con colleghi europei. Lui doveva far tutto da solo (dalla stampa e la fotocopiatura dei moduli alla loro minuziosa compilazione), mentre – spiegava basito – i suoi omologhi europei dovevano solo occuparsi dei contenuti scientifici perché a tutto il resto pensavano le segreterie.

L’altra storia è quella di un assistant professor indiano, un antropologo, alla Stanford University. Alla fine del suo primo anno sul campus, mentre si stava ancora ambientando nella nuova realtà accademica, racconta che andarono a cercarlo quelli dell’ufficio bandi. Erano stupiti che non avesse ancora fatto domanda per ottenere i fondi di ricerca che l’università metteva a disposizione dei docenti. Erano andati a scovarlo in ufficio per dargli dei soldi. Bastano queste due storie a chiarire alcune differenze tra i vari atenei in giro per il mondo.

A voler approfondire, ci si può avvalere dei risultati di una tra le più accreditate agenzie di ranking universitario, quella fondata da Nunzio Quacquerelli, la QS World University Rankings. La classifica di quest’anno, nonostante l’introduzione di tre nuovi parametri, non racconta nulla di particolarmente nuovo. Nei primi dieci posti, tolta la National University of Singapore e l’ETH Zurich (università pubblica), ci sono i soliti nomi noti. Tutte università statunitensi e inglesi. Tutte eccellenti. Tutte piene di Nobel, di Pulitzer e di studenti che trovano lavoro.

QS, come al solito, ha condotto un’analisi capillare, ha scandagliato una quantità cospicua di saggi accademici e, solo per questo studio, ha intervistato 240mila esperti tra professori e personale amministrativo. I tre nuovi indicatori introdotti quest’anno sono, rispettivamente, la sostenibilità, l’occupabilità, e la rete di ricerca internazionale. Si tratta di parametri cruciali che indicano, tra l’altro, in che direzione va il mondo. O, detta diversamente, indicano ciò che è importante per il futuro. Le migliori università italiane (che pur arrivano tutte abbondantemente dopo la soglia, anche psicologica, delle prime 100), vanno piuttosto bene per quanto concerne la rete di ricerca internazionale ma hanno percentuali bassissime quanto a esito occupazionale dei propri laureati. Quanto è desiderabile per un datore di lavoro un laureato italiano?

Ecco i numeri: 36.9% il Politecnico di Milano (ranking 123, primo tra gli atenei italiani), 34.8% l’Alma Mater (Bologna, che è al 154mo posto), e il 58.9% per la Sapienza di Roma (134ma in classifica). L’università di Padova (che si piazza al 219mo posto) ha solo il 13.8% quanto a esito occupazionale. Lo stesso dicasi per la Federico II di Napoli che è al numero 335 della classifica (prima della Statale di Pisa) e ha un 7.1% di occupabilità. Analogo discorso per Tor Vergata (Roma) con il 7.8%. Non sono dati che riguardano l’occupazione (o la disoccupazione che, si sa, è a livelli altissimi tra i giovani). Viceversa, indicano l’interesse del mercato del lavoro, anche quello internazionale, verso i laureati di questo o di quell’ateneo.

Quanto alla sostenibilità, tra i meno disciplinati figurano il Politecnico di Milano (29.4%) e ancora Tor Vergata con il 15.2%. Padova, Sapienza e Statale di Milano, invece, superano ciascuna il 90% e dunque vanno benissimo quanto a pratiche sostenibili. Tra gli altri indicatori, colpisce vieppiù la bassa percentuale di studenti e docenti internazionali nei nostri atenei –la solita autoreferenzialità di noi italiani che siamo troppo esterofili su certe questioni e troppo poco su altre.

Questi ranking, sia chiaro, lasciano il tempo che trovano. Sono tanto veri come i dati secondo cui ogni italiano mangia 7.6kg di pollo l’anno. Le classifiche, dai polli all’università, sono indicazioni di tendenza che devono essere considerate solo come tali, anche quando sono il risultato di studi seri, trasparenti e documentati come quello di QS. Al tempo stesso, però, non si può negare che un ranking alto porti con sé una serie di benefici. Come minimo, garantisce una formidabile reputazione internazionale da cui, a cascata, discendono popolarità tra gli studenti, capacità di attrarre fondi e investimenti, e così via. Insomma, piove sul bagnato.

Le nostre università, invece, se viste solo attraverso i ranking, sembrano il ritratto di Dorian Gray di un paese che fatica a rinnovarsi, che destina pochi soldi alla ricerca e alla formazione, che poco o nulla fa per colmare lo scollamento tra studio e lavoro, che non riesce a capitalizzare, come si deve, sugli studenti e i docenti. È un capitale umano che, quando non fugge all’estero, rimane invischiato nelle maglie di un sistema raramente foriero di vere opportunità.

Queste classifiche sono utili solo quando costituiscono l’occasione per le università di pensare e di ripensarsi, e di mettere in atto le strategie per un rinnovamento che, partendo dalle aule accademiche non potrà che riverberarsi sul Paese intero. In Italia, le menti ci sono. La politica ci metta i soldi e diventi essa stessa esempio e motore di professionalità, di metodo, di merito, e di rigore. Per investire sul Paese, bisogna prima investire, in denaro e in idee, su scuola e università. Se cominciamo da subito, chissà che il prossimo anno uno dei nostri atenei non riesca a piazzarsi sotto i primi cento. Sarebbe già un gran bel risultato.

Post-Scriptum: nel frattempo, nessuno creda a Flavio Briatore che invita alla falegnameria invece che allo studio. I giovani intanto studino, nell’università che vogliono, ma studino. Poi decideranno se e come fare i carpentieri, i falegnami o i biologi.