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“L’uomo che non voleva piangere”, i racconti dell’angoscia nord-europea: la preziosa raccolta di Stig Dagerman
L’uomo che non voleva piangere è un vero e proprio viaggio nei bassifondi morali e materiali della società. Esplora la forza disperante di uomini oppressi da sensi di colpa e solitudine: il punto di riferimento è Kafka

L’angoscia, tratto saliente di tanta grande letteratura novecentesca, assume un tratto particolare nei romanzi e racconti del Nord Europa. Si mescola con aspetti furiosi e grotteschi insieme, spesso nella dimensione del sogno e sempre con uno sguardo disgustato alla condizione sociale, ai bassifondi morali e materiali della società contemporanea. La Svezia è stata una grande culla di questa letteratura, come ben sanno i fedeli della casa editrice Iperborea, che ha il merito storico di aver divulgato da noi quelle pagine. Tra le quali rifulgono quelle dei racconti di Stig Dagerman (1923-1954), morto suicida a soli 31 anni dopo aver molto prodotto.
Oggi esce questa preziosa raccolta di racconti, “L’uomo che non voleva piangere” (traduzione di Fulvio Ferrari), nella quale troviamo tutta la forza disperante di uomini senza qualità oppressi da sensi di colpa, spaesamenti, tragedie reali o immaginarie: siamo nell’empireo di Kafka e Strindberg, per capirci, dove non mancano grottesche pennellate di surrealismo comunque disperato. Dagerman è un grande scrittore, che colse il fremito mortale del suo secolo attraverso una pluralità di stilemi, compreso persino un accento “americano”, forse debito del suo grande amore per Faulkner. Ma è Kafka il più immediato riferimento di certi racconti.
Non solo, ovviamente, “Il processo“, che fin dal titolo richiama il grande praghese, con colpi di genio come quello dei “testimoni ciechi”: «Non è un’esagerazione dire che la verità si è notevolmente accresciuta dopo l’introduzione dei testimoni ciechi, in quanto nessuno nega più, ma tutti cadono in ginocchio davanti alla legge e confessano ogni cosa». Kafkiani anche
“Il condannato a morte” e il bellissimo “L’uomo di Milesia”, l’avventura grottesca di un poveraccio sospeso tra la città di mezzo, Milesia, l’inferno di Shirley, «il sobborgo dove i poveri non hanno speranza», e Tropico, il quartiere dei ricchi dove la tripartizione biblica è anche sociale. Spunta qua e là anche un realismo un po’ “americano”, come in “Apri la porta, Rickard”, dove la protagonista è barricata in una stanza e nella sua solitudine.
Nell’umanità grigia e meccanica di Dagerman – che abbiamo visto in tanto cinema espressionista – si aprono qua e là squarci timidi di un amore per lo più fantastico o impossibile, subito di nuovo oscurati dalle nuvole nere dell’esistenza e dei suoi enigmi.
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