Questa è la rubrica della Posta della Prevenzione, nata per dare una voce a chiunque voglia condividere esperienze di discriminazione, violenza e rinascita. Questo è il luogo dove tutte quelle storie troppo dolorose per essere raccontate ad alta voce, trovano uno spazio sicuro e protetto dal più assoluto anonimato. Vogliamo leggere la vostra storia. Scriveteci a: postaprevenzione@gmail.com

Sono Giada,
a causa di un ginocchio rotto, ho passato l’ultimo mese sul divano a consumare ore e ore di televisione. È incredibile come giorno dopo giorno mi sia abituata ad essere intrattenuta dalla cronaca nera che, per una media di quattro ore pomeridiane, è il caposaldo delle trasmissioni televisive, che poi passano la palla a quelle serali. Sembra quasi di guardare una serie tv: la trama è unica, collegata da un fil rouge, ma ogni giorno si arricchisce di un nuovo episodio, fatto di nuovi contenuti e rivelazioni inedite sui fatti dei giorni precedenti. Pare, una serie televisiva distopica, di quelle che raccontano scenari irrealistici, ma che intrattengono perché riconducibili ad aspetti della nostra realtà. Poi, un giorno, mi sono ritrovata a pensare “Certo, ora ci danno anche fuoco come ultimo colpo di scena”.
Quando ho sentito la notizia di Anna Elisa, a cui un uomo, il compagno, aveva dato fuoco, le parole che fuoriuscivano dalla tv non sembravano riconducibili alla realtà. Ad Anna Elisa è stato dato fuoco per aver salutato un conoscente.
E per qualche giorno, quello è stato il racconto andato in onda.

Di fronte alle interminabili trasmissioni, mi sono chiesta se di fronte alla notizia qualcuno in questi giorni l’abbia ascoltata davvero se, come me, si sia impietrito per qualche secondo, pensando, sperando di aver sentito male. Non ho percepito la furia di nessuno per come in Italia, si sia dato fuoco ad una donna per aver disobbedito alle volontà di un uomo, di come Anna Elisa sia morta per le dolorose fatali ustioni. Nessuno. Nessuno le ha destinato la metà dell’attenzione riservata alla polemica di uno spot pubblicitario dell’Esselunga. Li, si è insorti, ci si è indignati per una presunta incitazione al modello di famiglia ‘tradizionale’ ma, non del modello in cui se la donna non obbedisce al volere dell’uomo, viene uccisa dandole fuoco.
Ho ascoltato le varie trasmissioni televisive e, in tutte, ci si interrogava sulle motivazioni alla base del gesto, come lo si fa in ogni caso di femminicidio, per cercare l’origine e le motivazioni dell’accaduto.

In questo caso, ciò che mi ha fatto impressione è stato sentir parlare di un uomo ‘innamorato’, di banali ‘scenate di gelosia’. Ed è forse qui che il racconto della trama andrebbe cambiato. Perché è sempre dopo le banali scenate di gelosia, fatte passare come comportamenti che testimoniano solo quanto ‘l’innamorato’ sia follemente pazzo della compagna, che l’irreparabile avviene. È forse proprio la narrazione dell’amore come folle e passionale che fa giustificare i comportamenti di questi uomini tutto, fuorché innamorati. È questo ripetere alle donne, alle amiche, che sia tutto ‘normale’, a farle rimanere li, nel silenzio, finché non venga inflitta la prova definitiva che di amore non si trattava. Vorrei che qualcuno insegnasse l’amore, che si spiegasse che la sua trama che ci è stata indottrinata fin da piccole, come quella di un sentimento folle che porta a litigare come pazzi, non sia l’amore sano, quello vero. Vorrei che all’amore si unisse la matematica dei numeri, delle percentuali dei casi di femminicidio, per insegnare che no, quelle in televisione non sono casi particolari, l’eccezione, non una forma di pomeridiano intrattenimento che racconta scenari inverosimili, ma la realtà in cui noi donne siamo obbligate a vivere.

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