Politica
Maastricht 30 anni dopo, volare alto per l’Europa di domani
«Essere a Maastricht oggi ha un valore doppio: Maastricht è per la nostra generazione il luogo costitutivo dell’identità europea. Sappiamo che non c’è soltanto Maastricht nelle tappe meravigliose del processo di costruzione del sogno europeo: noi italiani per primi partiamo da quel 1957 in cui a Roma fu firmato il Trattato tra i primi sei Paesi. Ma quello che accadde nel dicembre del 1991 in questo palazzo dove siamo oggi fu oggettivamente una svolta: per i 12 Paesi che allora componevano l’Unione Europea – per l’Italia firmarono Giulio Andreotti, Gianni De Michelis e Guido Carli – fu probabilmente una delle pagine più intriganti e affascinanti della storia dell’Unione Europea. Anche delle pagine difficili, perché da quel momento il percorso di costruzione di un’Europa più forte e dell’avvicinamento all’Euro fu un percorso scandito da tanti sacrifici.
Maastricht è quindi un luogo che evoca sacrifici per la nostra generazione. Ma Maastricht è una delle capitali del sogno europeo. Essere qui più di 30 anni dopo, è il tentativo di riflettere sull’Europa di domani e lo stiamo facendo in un giorno particolare: il giorno in cui siamo qui a Maastricht è il 9 novembre che per la costruzione dell’Europa è un’altra tappa fondamentale. Cosa è accaduto il 9 novembre? Il 9 novembre il muro di Berlino, era il 1989, veniva giù mostrando con chiarezza l’altra parte dell’Europa. Perché se Maastricht è il simbolo degli accordi, dei trattati del percorso economico-istituzionale, la caduta del muro di Berlino il 9 novembre del 1989 è il simbolo di che cos’è l’Europa: uno spazio di libertà, il trionfo della libertà contro l’oppressione, della democrazia contro la dittatura. Ecco allora che il 9 novembre da Maastricht proviamo a riflettere insieme sull’Europa di domani. A distanza di una generazione, cos’è rimasto per i ragazzi nati negli anni 2000 di quel sogno, di quel progetto, di quella straordinaria avventura condivisa che portò tante donne uomini a credere che la storia fosse cambiata? Qualcuno diceva che la storia era finita, non è così. La storia è cambiata, la storia ci sprona a nuove sfide, ma la storia dimostra che l’Europa che allora era un sogno necessario, oggi è l’ultima speranza per riuscire a costruire un pianeta nel quale la nostra terra non sia soltanto una terra spettatrice dello scontro tra Stati Uniti e Cina.
Insomma è come se volessimo dire, oggi più che mai, che gli Stati Uniti d’Europa sono un obiettivo per noi ancora vero e valido.
E questo vorrà dire, proverò a spiegare perché, che occorre un’Europa a più velocità, non un’Europa in cui ci siano il diritto di veto e la possibilità di bloccare i passi in avanti; un’Europa che quindi deve allargarsi non solo geograficamente, ma cambiare profondamente nelle modalità e nelle regole del gioco; un’Europa nella quale occorre l’elezione diretta del Presidente della commissione e i commissari devono essere espressione non dei singoli Paesi, ma delle scelte politiche del risultato elettorale; un’Europa che arrivi all’esercito europeo.
Oggi i Paesi in tutto il mondo stanno investendo in difesa. Gli Stati Uniti hanno oltre 800 miliardi di dollari di budget per la difesa e la Germania, che è il Paese più importante in termini di investimenti in difesa all’interno dei 27 paesi dell’Unione, è circa 15 volte più bassa come investimenti rispetto agli Stati Uniti. Questa sproporzione non ha alcun senso di continuare ad esistere. Il Giappone aumenta gli investimenti in difesa del 13%, tutto il mondo sta investendo in difesa pensando al “dual use”, vale a dire alla possibilità di utilizzare quegli investimenti in difesa a scopi civili. Internet è nata così, attraverso degli investimenti in difesa che poi hanno avuto una grande eco nel civile. Il GPS è nato così e non è un caso che negli ultimi 30 anni, da quando qui a Maastricht fu firmato quell’accordo, quasi tutte le principali realtà dell’innovazione vengano dagli Stati Uniti e non dall’Europa.
È un’Europa che abbia la forza di dare valore all’intelligenza artificiale non come minaccia ma come opportunità per far crescere il PIL, che investa sull’aerospazio, che investa sul venture capital e la finanza per la crescita e contemporaneamente faccia del “climate change” una battaglia da combattere non in modo ideologico ma pragmatico, concreto, con dei risultati. Un’Europa che sulla medicina e sulla innovazione tecnologica ad essa collegata costruisca una parte del proprio futuro. È questa Europa che noi vogliamo costruire ed è un’Europa molto diversa da quella dei sovranisti e dei populisti che parlano per slogan. Proviamo a raccontare cos’è accaduto in questi 30 anni. Pensiamo a quello che è accaduto dal momento in cui qui a Maastricht i dodici firmarono l’accordo: ad esempio pensiamo a cosa è accaduto in Cina. La Cina 30 anni fa era un Paese in cui la povertà era diffusa in modo incredibile: in 30 anni la Cina ha portato fuori dalla povertà un numero enorme di persone e lo ha fatto attraverso delle riforme che sembravano impossibili, cioè riforme di mercato. Quando Xi Jinping nel 2017 a Davos elogia il libero mercato, ci rendiamo conto che per la nostra generazione stiamo assistendo a una rivoluzione concettuale.
La Russia in questi 30 anni ha cambiato pelle almeno due, tre volte: era l’Unione Sovietica di Gorbaciov, poi quella di Eltsin, poi quella di Putin. È una Russia che è stata vicinissima a coronare il sogno di Dostoevskij che diceva “senza Europa non c’è Russia, senza Russia non c’è Europa”. Nei primi anni del nuovo millennio Vladimir Putin è stato protagonista di un avvicinamento molto forte soprattutto con i tedeschi, basti pensare al suo intervento al Parlamento di Berlino. In molti pensavano, dopo il vertice di Pratica di Mare tra Nato e Russia, che si potesse scrivere una pagina nuova nei rapporti con Mosca. Quello che è accaduto in Ucraina, con l’illegale e criminale invasione compiuta dai russi nei confronti del governo di Kiev, dimostra che quella finestra di opportunità si è chiusa. Non è detto che nell’arco di una generazione non possa riaprirsi con differenti leader ma certo è che la Russia oggi è quanto di più lontano vi sia dall’Europa, nonostante il fatto che sia il nostro più importante vicino.
E ancora l’India, che in 30 anni non soltanto ha cambiato volto ma è diventata il Paese più popoloso al mondo con 1,6 miliardi di persone e arriva a delle conquiste in ogni settore. Se guardiamo i CEO, gli amministratori delegati delle principali aziende della ICT in Silicon Valley, sono quasi tutti indiani e contemporaneamente l’India arriva sulla luna. E ancora, quanto è cambiato nel mondo europeo? Pensate al Regno Unito, dalla Thatcher a John Major che firmò qui nel palazzo di Maastricht. E poi al cambio dei primi ministri, la stagione di Tony Blair, l’ultimo della sinistra a vincere con il suo mantra “education, education, education”, un grande tema che la sinistra di tutto il mondo sembra aver smarrito. E poi David Cameron e quel referendum che ha portato il Regno Unito fuori dall’Unione Europea in un momento nel quale entrambi, Londra e Bruxelles, avrebbero avuto l’uno bisogno dell’altro.
In questi 30 anni molto è cambiato negli Stati Uniti: dalla visione di Reagan – c’era già Bush ai tempi dell’accordo di Maastricht – che chiedeva a Gorbaciov “butta giù quel muro, abbatti quel muro, compagno segretario”, fino alla stagione della divisione Trump Biden, Biden Trump, gli Stati Uniti hanno mostrato una grande crescita e un soft power economico ancora straordinario ma una profonda crisi della democrazia che dovrebbe farci riflettere. Nel frattempo nuove potenze emergono. Se 30 anni fa ci avessero detto che Dubai sarebbe divenuta la capitale del turismo mondiale, ci saremmo fatti una sonora risata. Io vengo da Firenze: l’idea che Dubai potesse competere con Firenze sul turismo sembrava allucinante 30 anni fa. Anche oggi non può competere, perché Dubai ha dei numeri straordinariamente più forti di Firenze nel mondo del turismo e più in generale dell’Italia. C’è bisogno dunque di prendere atto che i Paesi, che piacciano o non piacciono, che riescono ad avere una programmazione di lungo periodo, di medio termine, sono in grado di fare la differenza. È quello che sta accadendo in alcuni Paesi del Golfo, a cominciare da Saudi Vision 2030 per continuare con tutto ciò che ha a che vedere con la striscia del mondo arabo che va dal Marocco fino ai Paesi del Golfo.
In questi 30 anni il Nord Africa ha conosciuto la primavera araba, ma la democrazia non ha funzionato in quei Paesi. Pensate a quello che è successo quando Muslim Brothers ha preso il potere: è aumentato il terrorismo internazionale. Noi abbiamo bisogno di individuare una strategia complessiva per consentire a quella parte del mondo di vivere finalmente in pace. E lo diciamo qua, adesso, in un momento nel quale l’orrore per ciò che sta avvenendo ed è avvenuto in Terra Santa è particolarmente forte. E tuttavia io voglio spendere una parola di speranza: non è mai stata così vicina la pace che Giorgio la Pira chiamava la pace dei figli di Abramo. Non è mai stata così vicina, lo dico ai ragazzi più giovani, perché è vero che le immagini che stiamo vedendo sono immagini di disperazione: pensate a quello che ha fatto Hamas, ha ucciso dei bambini, ha violentato delle bambine, ha ammazzato delle persone che volevano soltanto ballare a un rave party, ha violentato e mutilato i cadaveri, ha dimostrato che l’orrore non aveva fine. In quel 7 ottobre questo è accaduto. E tuttavia non siamo mai stati così vicini alla pace perché è mia convinzione che il mondo arabo riformista stia davvero abbandonando Hamas, prendendone le distanze, e se Hamas sarà distrutto, come io auspico e penso sia giusto, allora si porrà il tema di come arrivare all’obiettivo che tutti noi vogliamo da sempre: due popoli, due Stati. Due popoli, due stati lo abbiamo detto alla Knesset nel 2015, lo ripetiamo in tutti i livelli. Questo vuol dire che i Paesi arabi dovranno avere la gestione, l’aiuto e il supporto delle aree ad oggi contestate ma in una dinamica di nuova pace tra Tel Aviv e Riad, tra Tel Aviv e le altre capitali arabe. Io credo alla pace dei figli di Abramo e credo che non siamo mai stati così vicini perché il più grande nemico della pace dei figli di Abramo non è l’israeliano o l’arabo, è il terrorista. E il terrorista oggi ha le sembianze del mondo di Hamas.
Prima di arrivare alle proposte concrete sull’Europa è proprio sul terrorismo che forse vale la pena spendere una parola nel raccontare questi trent’anni. Perché c’è stato l’11 settembre del 2001, un anno che ha segnato la storia del pianeta, ma il terrorismo ha colpito fortemente anche la nostra Europa: ha cambiato il destino di un’elezione in Spagna – l’attentato alla stazione -, ha profondamente inciso su quello che avviene in Francia – pensate a Charlie Hebdo o al Bataclan nel 2015 -, ha colpito la Germania, ha colpito il Belgio. Ed è partito non dai Paesi stranieri, è partito dalle periferie, dalle banlieue. Perché? Perché nelle banlieue è mancata la capacità di integrare e di integrarsi. Perché è mancata non soltanto la sicurezza della polizia: è mancato il controllo del territorio, ma anche il controllo educativo. Se l’Europa ha un senso, ha senso perché è l’Europa della cultura. Senza l’Europa della cultura non c’è futuro per questo nostro territorio.
Ecco perché una delle cose di cui sono più fiero da Presidente del Consiglio è stata la battaglia in difesa della Grecia dentro l’Unione Europea. Nel 2015 alcuni Paesi importanti dell’Unione Europea volevano che la Grecia uscisse dall’Europa: dicevano che c’era un debito pubblico troppo alto da parte della Grecia e talvolta questo debito assumeva i connotati del debito privato verso alcune realtà bancarie di altri Paesi europei. Qualcuno di noi si mise di traverso dicendo che c’era un debito pubblico molto elevato della Grecia, ma c’era un debito pubblico ancora più elevato dell’Europa nei confronti della Grecia per quello che è la filosofia, per quello che è la democrazia, per quello che sono i valori, dalla matematica alla retorica. E allora abbiamo combattuto perché la Grecia tornasse ad essere in regola con le linee programmatiche dell’Unione Europea. Questo è avvenuto e oggi, ironia della sorte, il primo ministro greco è il figlio del primo ministro che qui in questo palazzo firmò l’accordo di Maastricht, Mitzotakis. Ma la Grecia è rimasta nell’Europa per ricordare a noi stessi chi siamo: noi non siamo soltanto dei codici fiscali, noi siamo delle donne e degli uomini, delle emozioni.
La cultura è l’elemento chiave anche per sconfiggere il terrorismo: se noi lasciamo che nelle banlieue o nelle nostre periferie i migranti, ma anche i cittadini non di prima generazione, perdano il contatto con le realtà che li circonda, perdano il senso della identità e del valore culturale dell’appartenenza, se lasciamo questo perdiamo ogni tipo di credibilità come Unione Europea. Non esiste l’Unione Europea senza le proprie radici culturali: chi nega le radici culturali dell’Unione Europea, dalla Grecia a Roma, dal mondo cattolico alla tradizione ebraica, chi pensa di poter cancellare le radici culturali dell’Unione Europea non si rende conto che sta segando il ramo sul quale siamo seduti.
È per questo che voglio raccontare come la mia città, Firenze, sia la città che più di ogni altro dimostra questo concetto. Ed è per questo che mi colpisce che l’istituto universitario europeo di Fiesole rifiuti l’espressione “Natale” per utilizzare l’espressione “festa d’inverno” pensando di poter cancellare le radici di quello che noi siamo.
L’inizio del Rinascimento è considerato nel momento in cui il Ghiberti viene invitato a realizzare quelle che poi Michelangelo chiamerà le Porte del Paradiso: è l’ingresso del battistero. Per chi si reca a Firenze quelle porte oggi non sono in battistero, ma sono nel Museo dell’Opera del Duomo, a 400 metri di distanza: le porte del battistero oggi sono infatti delle copie. In questo capolavoro del Ghiberti c’è molto del Rinascimento non solo per la qualità artistica che gli esperti di storia dell’arte possono spiegare molto meglio di quello che posso fare io. C’è molto del Rinascimento perché in quel momento i fiorentini fanno un gesto che non sono soliti fare: decidono cioè di investire una cifra spropositata con l’arte della lana per realizzare il capolavoro del battistero. La cifra spropositata è incredibile: spendono per fare quell’opera l’equivalente di un anno di budget per la difesa. Fatto 100 l’investimento a disposizione, lo dividono in due: 50 lo mettono per difendere la città dai tanti assedi e dagli scontri fratricidi di quegli anni e 50 lo mettono per fare un’opera d’arte che resti nel corso dei secoli. Perché questo è un simbolo? Perché è il simbolo che ciò per cui noi combattiamo sono i nostri valori e quindi vale la pena fare un grande investimento in cultura e in arte almeno quanto difendiamo noi stessi e la nostra struttura militare.
È esattamente quello che il nostro governo decise di dire dopo il Bataclan: per ogni euro investito in cultura, un euro investito in sicurezza. E quindi per ogni euro investito nella polizia, nell’esercito, nella difesa, nelle pattuglie militari alle stazioni, un investimento in un teatro di periferia, un investimento in una scuola, in un museo, nella 18app, nel bonus diciottenni. Tutto questo nacque non da un discorso astratto ma da un esempio concreto: l’esempio della porta del Ghiberti che Michelangelo definirà le vere Porte del Paradiso tanto gli sembravano così belle.
Ecco perché teniamo insieme il terrorismo e la cultura. Ecco perché l’Europa deve riappropriarsi della dimensione culturale, perché senza dimensione culturale l’Europa resterà soltanto una piccola, piccola parentesi dentro i veri player della politica mondiale. Sì, perché l’Europa oggi demograficamente è una realtà molto più piccola del passato. È come dire che l’Europa si è allargata a 27 geograficamente ma si è ristretta geopoliticamente. Il mondo è più grande, l’Europa è più piccola. Guardate la demografia: noi abbiamo un collasso demografico. Io sono nato nel 1975 e c’erano più di un milione di bambini che nascevano tutti gli anni, nel 2022 in Italia sono nati 380.000 bambini. Da 1,1 milioni a 380.000: non è una crisi, è un collasso, è un abisso. Stessa cosa vale in altri Paesi. In Germania il livello di presenza di persone che hanno dei nonni originari della Germania è soltanto del 27%, cioè i bambini che vanno a scuola hanno tutti i nonni di origine tedesca solo del 27%. Non è un caso che lo scorso anno siano arrivati più di un milione tra ucraini e afgani o che negli anni del nostro governo, nel solo 2015, un milione e duecentomila siriani siano entrati in Germania. Tutta l’Europa ha una crisi demografica e un livello di cambiamento profondo della propria popolazione.
Siccome l’Europa è sempre più piccola guardiamo i numeri: il resto del mondo cresce a un ritmo impressionante. Nei prossimi 30 anni la Nigeria sarà più grande da sola dell’intera Unione Europea, nei prossimi 7 anni il Congo passerà da 130 a 200 milioni di abitanti. O noi siamo consapevoli che l’Europa deve ritagliarsi un ruolo o conteremo sempre meno per non dire sostanzialmente più niente. Ecco allora che da Maastricht arriva il momento di provare a raccontare che tipo di Europa possiamo avere, sapendo che non è facile immaginare una nuova Europa in un contesto di riforme che i cittadini solitamente respingono.
Come è noto sono un esperto di referendum persi: nel 2005 la Francia provocò con il presidente Chirac a mettere ai voti un referendum che in nome della paura dell’idraulico polacco – questa fu la campagna contro quel referendum – portò il progetto europeo a una battuta d’arresto straordinaria. Quando nel 2016 David Cameron chiamò il referendum sulla Brexit sembrava impossibile che Londra rischiasse l’osso del collo senza una maggioranza sicura e invece questo è avvenuto. Dunque quando si è cercato di passare attraverso un voto referendario, sempre il progetto europeo ha avuto delle battute d’arresto ma ciò nonostante noi crediamo che l’Europa debba recuperare il proprio ruolo e lo diciamo a Maastricht dicendo innanzitutto che serve più politica.
Serve più politica significa: elezione diretta del Presidente della commissione, liste transnazionali, basta veto, Europa a più velocità, solo 20 commissari e meno burocrazia. È il primo pacchetto di proposte su cui confrontarsi. Noi pensiamo che i sovranisti e i populisti si possono sconfiggere non giocando in difesa ma andando all’attacco.
L’elezione diretta del Presidente della commissione significa più democrazia: noi che siamo disponibili a votare l’elezione diretta del Presidente del Consiglio italiano, pensiamo che l’elezione diretta non sia una deriva autoritaria ma sia una svolta democratica importante. Lo pensiamo in Italia, lo pensiamo a maggior ragione in Europa. Serve più spesa comune sulla difesa ma anche sullo spazio e sul mare. Samantha Cristoforetti, un orgoglio italiano, ha detto che nell’aerospazio se non sei al tavolo, sei nel menu. Sta accadendo questo all’Unione Europea: occorre che sulle politiche spaziali, su cui recentemente è intervenuto il presidente Macron, sulle politiche strategiche e soprattutto sulla difesa comune i grandi Paesi, a cominciare da Germania, Francia e Italia, facciano squadra davvero e sognino il progetto dell’esercito europeo. Anche perché la Nato era finita prima che Putin la rilanciasse. Uno dei paradossi di questi anni è esattamente questo: in un’intervista Emmanuel Macron dice che la Nato vive una condizione di morte cerebrale, dopodiché quello che accade in Ucraina dà nuova linfa all’organizzazione atlantica. Ma non basta la Nato: serve l’esercito europeo.
Terzo punto: serve la politica estera. Non so quanti di voi seguono la politica estera ma la politica estera dell’Unione Europea oggi non c’è: la politica estera dell’Unione Europea è un fantasma, è un insieme di documenti burocratici che non producono nulla. Non voglio essere tacciato di un eccesso di pessimismo: io sono ottimista, sono convinto che possiamo giocare un ruolo, ma per giocare questo ruolo occorre cambiare totalmente l’approccio. Dov’è l’Europa oggi nei Balcani? La storia ci insegna che quando succede qualcosa nei Balcani è un problema per tutto il mondo. Dov’è oggi l’Europa in Palestina e in Israele, se non a rimorchio delle posizioni di altri? Dove è oggi l’Europa nel tentativo di giocare una partita in Africa? L’Europa ha voltato le spalle all’Africa e l’Africa oggi ha i materiali, i prodotti più importanti nelle mani dei cinesi, a cominciare dalle materie rare. I cinesi sono i veri leader del mondo africano, gli europei non toccano palla nemmeno nei settori che più potrebbero essere a nostro beneficio.
Pensate soltanto a quello che potrebbe essere per l’energia solare e per l’idrogeno i collegamenti tra il deserto, i pannelli solari e gli strumenti del fotovoltaico, con le pipeline, i cavi e l’Europa del Sud. Oggi noi abbiamo un sistema in cui le rinnovabili non riescono a coprire l’intero fabbisogno e in Italia in particolar modo sappiamo come le rinnovabili siano bloccate da una burocrazia talvolta miope e assurda come quella delle sovrintendenze. Se noi riuscissimo a immaginare un diverso dialogo tra sud dell’Europa e Nordafrica sulle questioni energetiche, non solo per il petrolio o per il gas, ma anche per le rinnovabili, scriveremo una pagina nuova e dimostreremo che si può essere per una transizione più giusta, meno ideologica di quelle che qualche commissario ha voluto anche in questi anni con l’European New Deal: potremmo riuscire a fare della lotta contro il climate change un modello non ideologico ma pragmatico. Da un lato c’è il negazionismo che dice il “climate change” non esiste, dall’altro c’è l’ideologia di chi pensa che per combattere il “climate change” bisogna spaccare le opere d’arte o bloccare il traffico sul Grande Raccordo Anulare. E dall’altro c’è chi pensa che occorra investire sulla decarbonizzazione davvero. Ma la decarbonizzazione significa scommettere sul nucleare di nuova generazione, la decarbonizzazione significa lavorare con il gas finché ne abbiamo bisogno, la decarbonizzazione significa liberare le rinnovabili dai veti, lacci e lacciuoli.
La decarbonizzazione significa anche immaginare di dare spazio al talento. Questo vuol dire anche l’Europa delle università. Lo dico a Maastricht: tutti noi pensiamo a Maastricht soltanto come un luogo dei trattati, ma Maastricht ha una storia, ha una storia culturale, ha una storia religiosa, ha una storia meravigliosa come quella della città nella quale muore un personaggio che era D’Artagnan, reso celebre da Dumas ma che era un personaggio realmente esistito e morto qui. Maastricht è la città delle università universitarie di questo nostro straordinario continente. Noi dobbiamo fare delle università degli straordinari hub di innovazione e di futuro, dobbiamo attrarre i talenti – ci sono qui dei ragazzi che hanno lasciato l’Italia per fare un pezzo della loro esperienza in Olanda a Maastricht – ma probabilmente dobbiamo far sì che questi ragazzi siano felici di fare un’esperienza all’estero. Torneranno in Italia se l’Italia sarà in grado di accoglierli e in qualche modo di stimolarli.
Allo stesso modo tanti giovani possono venire da tutto il mondo ed essere attratti dalle nostre università se finalmente ci liberiamo delle baronie tradizionali e proviamo a dare spazio al merito ovunque. Dare spazio al merito e al talento significa scommettere su una nuova generazione di migranti, che non sono soltanto i migranti che arrivano con i barconi, ma sono i migranti che vengono a studiare in Italia per imparare non soltanto l’italiano, ma per imparare un lifestyle oltreché per scambiarsi opinioni con i nostri cervelli e per arricchire i nostri cervelli. Questo significa avere un modello diverso sull’immigrazione: l’Europa che noi immaginiamo dei prossimi 30 anni è qualcosa che sull’emigrazione cambia totalmente volto. Quando ero Presidente del Consiglio abbiamo raccolto in mare, in una triste settimana dell’aprile del 2015, molti cadaveri: erano i corpi di una delle più grandi stragi del mare, circa 700 persone morirono infatti nell’aprile del 2015. A seguito di quella vicenda l’Italia chiese ed ottenne l’intervento dell’Unione Europea: partì così l’operazione Sofia dal nome di una bambina nata in una nave, che la sua mamma aveva salvato e aveva portato finalmente sulle nostre coste. Ma quella vicenda ha segnato molti di noi anche perché decisi di andare a finanziare, con molte critiche dei populisti e dei sovranisti, il recupero dei cadaveri.
Chi crede nella cultura italiana sa che da Virgilio in poi, ma anche prima, la capacità di accogliere lo straniero, di dargli soccorso non è una capacità che si può mettere in discussione se cambia il governo. È una caratteristica del nostro Paese. Quando l’ammiraglio Todaro, di cui si parla oggi in un libro di Veronesi e in un film con Favino protagonista, all’inizio della guerra, nel 1940, abbatte un piroscafo belga perché trasportava delle armi agli inglesi, egli decide di raccogliere i marinai della nave belga e li mette in salvo rischiando anche lui. A un certo punto un generale nazista gli chiede: “io sono anche ammirato dalla sua umanità ma le domando se lei si rende conto che ha fatto un atto assurdo, quello di salvare dei nemici in mare… siamo in guerra!”. E lui gli risponde: “sì, siamo in guerra e infatti io ho abbattuto la nave, ma io sono anche italiano, ho duemila anni di civiltà alle spalle e non rinuncerò mai a questo”. E allora, questa è l’Italia: è l’Italia che non smetterà mai di salvare le persone in mare.
Il punto vero è come gestire l’immigrazione. Oggi i populisti raccontano che l’immigrazione è il primo problema del nostro Paese. No, il primo problema è l’emigrazione, la gente che lascia l’Italia e che non torna. L’immigrazione va gestita con due principi, due paletti fondamentali: la legalità, se tu non rispetti le regole torni a casa, e contemporaneamente il lavoro. Noi abbiamo degli spazi per poter creare posti di lavoro le cui figure necessarie non sono coperte. Abbiamo più bisogno di lavoratori per i tanti posti di lavoro che sono ancora vacanti. Capite allora che il tema non è creare dei centri di detenzione dei migranti, il tema è creare dei centri di formazione per i migranti, per metterli a lavorare. E chi non rispetta le regole se ne va. Ma chi rispetta le regole, come è accaduto ai nostri migranti che sono arrivati qui in Olanda, che sono arrivati in Belgio, che sono arrivati in Lussemburgo nel corso degli anni, chi rispetta le regole può farsi una vita e deve farsi una vita insieme.
Questo vuol dire accettare un nuovo modello contro le diseguaglianze e un nuovo modello di lavoro. Un modello di lavoro che porti a combattere la povertà non con i sussidi, non con quella assurdità del reddito di cittadinanza: un modello di sviluppo che porti l’Europa a valorizzare il lavoro, a pagarlo meglio, a ridurre la tassazione per le aziende. Perché se tu vuoi davvero dare una mano non serve un sussidio: abbassa le tasse a quegli imprenditori che mettono nelle buste paga dei dipendenti i denari anziché trasportarli all’estero o metterli come profitto personale. È molto semplice: si chiama partecipazione dei lavoratori agli utili, detassazione degli straordinari, detassazione della tredicesima, della quattordicesima. Se io imprenditore do 100 euro a un lavoratore, quei 100 euro devono costarmi 100 euro, non devono costarmi 250 euro perché lo Stato fa l’extra profitto su ciò che un imprenditore dà ad un lavoratore. E se questo è, penso che sia normale immaginare che un nuovo modello di sviluppo basato sul lavoro pagato meglio deve combattere la povertà non con gli slogan ma con la sanità.
Sì, la prima forma di lotta la povertà è una sanità che sia uguale per tutti. Una sanità dove puoi arrivare a farti un esame medico urgente perché hai paura di sapere il risultato di una biopsia, nello stesso tempo sia che tu sia ricco sia che tu sia povero. Se io ho paura di avere un cancro, non è che se sono ricco vado in una struttura privata e in 12 ore so qual è la diagnosi mentre se sono povero devo aspettare otto mesi perché le liste d’attesa in Italia sono quelle che sono. Ecco perché l’Europa ha una grande chance, che è quella di riaprire la linea del Mes sanitario. Occorre un doppio passo: un passo da parte dell’Europa nel riaprire la linea del Mes e un passo da parte dei sovranisti e populisti che in Italia hanno detto di no al Mes sanitario, che vale circa 37 miliardi di euro per la nostra sanità e che vuol dire abbattere le liste d’attesa, pagare meglio i dottori, pagare meglio gli infermieri, investire nei laboratori di ricerca, combattere le malattie che oggi sembrano invincibili. E questo, credetemi, nei prossimi 10 anni accadrà in tutto il mondo: la medicina nei prossimi 10 anni, grazie all’intelligenza artificiale, farà dei passi in avanti strepitosi.
Perché l’Europa deve essere rimorchio degli Stati Uniti o di altre realtà? L’Europa può essere il luogo nel quale la medicina segna dei passi da gigante. È accaduto in parte con il vaccino: due migranti dalla Turchia arrivati in Germania hanno avuto la forza di individuare il vaccino della Pfizer e recentemente una donna ungherese, trasferitasi ahimè negli Stati Uniti, ha ricevuto il premio Nobel per la medicina per gli studi proprio sull’mRNA. Serve fare dell’Europa il luogo delle cure, inteso come attenzione agli ultimi ma inteso come cure sanitarie, perché la ricerca ci dimostra che i passi in avanti che stiamo facendo sono del tutto inattesi per una generazione. È auspicabile che nei prossimi 30 anni una malattia come il cancro – o per lo meno come la larga parte dei tumori – sia qualcosa che appartenga soltanto al novero dei brutti ricordi ma è vero che vivendo di più, fortunatamente, nuove malattie si impongono e vanno affrontate. Perché più va avanti l’età media delle persone, e questo è un bene, più crescono tipi di malattie diverse e nuove, nuove, nuove complicazioni, in particolar modo nel settore delle malattie rare.
Ma c’è anche un tema ulteriore che non viene affrontato e che è il tema della malattia e della salute mentale. Vale in particolar modo per i giovani: tra prima e dopo il Covid il numero dei ragazzi under 25 con problemi di depressione è salito di otto punti, dal 16% al 24%. I disturbi legati all’alimentazione hanno visto i ricoveri crescere del 48% e le diagnosi del 36%. Il Covid e la chiusura delle scuole hanno prodotto un danno alle nuove generazioni di cui nessuno sta parlando a sufficienza.
Perché dunque non fare dell’Europa un luogo nel quale riuscire ad affrontare questi temi in modo innovativo? Lo diciamo a Maastricht, dove si è firmato un accordo che per noi ha il sapore dell’accordo economico, dell’ingresso nell’euro anche se non era solo su questo. Qual è la sfida prossima dei 30 anni che viene? La sfida di una intelligenza artificiale che sia al servizio dell’uomo. L’intelligenza artificiale secondo tutti i calcoli è il fattore che porterà il maggiore aumento del PIL dei prossimi decenni e però tutti raccontano l’intelligenza artificiale come una minaccia. È vero, l’intelligenza artificiale porrà interrogativi molto inquietanti soprattutto ai Paesi che hanno messo in secondo piano la filosofia del diritto o semplicemente la filosofia politica o l’etica.
L’artificial intelligence cambierà anche profondamente il modo anche di concepire gli studi nei prossimi anni. Ma l’intelligenza artificiale è un’opportunità, perché il futuro non può essere un luogo del quale avere soltanto paura, il futuro è la nostra grande opportunità per provare a cambiare le cose. 30 anni fa, quando qui firmarono l’accordo, non c’erano i telefonini, o perlomeno iniziavano ad esserci, non c’era Google, non c’era Amazon, non c’era un modo di concepire la vita quotidiana: se pensate a come è cambiata la quotidianità, dai messaggini di WhatsApp alle ricerche su Google. Quando io parlo con i miei figli sembra incredibile che potesse esserci un mondo in cui c’erano due Germanie, in cui non c’era la possibilità di chattare ed essere connessi in tempo reale con tutti e se si fosse dovuto fare una ricerca a scuola bisognava andare in biblioteca e sfogliare una enciclopedia. Oggi se dici queste cose ai ragazzi più giovani ti guardano come noi guardavamo gli Antenati, i Flintstones e l’età della Pietra. Però è così: è accaduto ed il cambiamento è stato radicale. L’intelligenza artificiale produrrà un cambiamento radicale superiore a quello che abbiamo vissuto noi che però va guardato in positivo, non in negativo, perché creerà posti di lavoro: permetterà di cambiare tante cose, anche se alcune non saranno positive.
Volete una previsione? Cambierà anche alcune realtà che pure siamo stati abituati a considerare come costitutivi dell’identità europea. 30 anni fa ognuno guardava il proprio campionato di calcio, adesso il torneo più importante è la Champions League. Perché? Perché è un successo europeo. Arrivo a provocare: tra 30 anni la Champions League sarà la serie B del calcio, perché noi siamo 500 milioni e gli altri sono 7 miliardi e mezzo. E siccome gli altri sono 7 miliardi e mezzo, vorranno avere un protagonismo anche nel mondo del calcio e dello sport, lo stiamo già vedendo.
Tuttavia a noi serve indicare una grande idealità che è quella degli Stati Uniti d’Europa ed è su questo che vado a chiudere. Noi abbiamo bisogno di impostare una scommessa per i prossimi anni che passi anche dalle regole economiche. Lo dico dal palazzo di Maastricht, lo dico agli amici olandesi, agli amici tedeschi: è impensabile immaginare che un’Europa dove c’è la stessa regola bancaria e dove ci sono le stesse regole economiche non ci sia una condivisione del debito. Quando dieci anni fa litigavamo sulla flessibilità con Angela Merkel e con Jean-Claude Juncker per avere uno spazio maggiore di disponibilità finanziaria, parlare di debito comune sembrava impossibile. Dopo la pandemia e dopo la guerra è diventato ovvio a tutti che almeno una parte del bilancio non possa che essere una parte realmente comune. Anche le regole europee dovranno cambiare: lo dico in un Paese importante da questo punto di vista, anche le regole fiscali dovranno essere diverse da quelle che sono oggi.
Ma quello che è importante è che non sia soltanto l’economia a segnare il futuro dell’Europa. Ecco perché penso e credo che la nuova generazione debba avere una possibilità di credere al futuro dell’Europa con uno sguardo ottimista e pieno di speranza. Lo dico in Olanda citando una giovane donna la cui tragica fine ha segnato molte generazioni del dopoguerra. Si chiamava Anna Frank e la voglio citare oggi a maggior ragione perché in questi giorni una demenziale decisione di una scuola tedesca fortunatamente rientrata, voleva togliere il nome Anna Frank da un asilo, segno di un antisemitismo talmente stupido da non avere altri aggettivi possibili.
Cito Anna Frank perché le parole di questa giovane ragazza, le parole di speranza pur in un momento drammatico e con un epilogo tragico, sono parole che dovrebbero ancora animare il cuore di tutti noi: È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze, perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora nonostante tutto perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo che può sempre emergere. Io credo, profondamente credo che quello che ci attende è un percorso molto difficile, è un percorso molto complesso, è un percorso molto arzigogolato ma è un percorso affascinante.
Quando 30 anni fa a Maastricht i leader dei 12 Paesi decisero di firmare il Trattato di Maastricht probabilmente non avrebbero mai immaginato quanta strada enorme l’Europa ha compiuto fino ad oggi. Questa strada oggi non è più sufficiente. Noi non siamo l’Europa che ricorda le intuizioni dei padri, noi siamo l’Europa che vuole accarezzare i sogni dei figli. Per ogni Ulisse che innova c’è un Telemaco che è chiamato a rilanciare quell’eredità: quel Telemaco siamo noi, o meglio sono i ragazzi della nuova generazione che tra 30 anni a Maastricht potranno raccontare come l’Unione Europea è tornata a giocare un ruolo tra Stati Uniti e Cina, come è diventata protagonista in Africa, come ha costruito la pace da Gerusalemme a Taiwan, come ha creato posti di lavoro con l’intelligenza artificiale, come è rimasta orgogliosa delle proprie radici culturali, che non vuol dire semplicemente difendere il fortino del passato, ma vuol dire essere persone in grado di avere delle emozioni.
Se saremo capaci di fare questo l’Europa avrà un futuro e allora avrà un senso tornare nei luoghi del passato e della sua storia, per raccontarci come abbiamo voglia di immaginare un domani dell’Europa che sia un domani di speranza e non soltanto di ricordi».
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