Il Dottor Paolo Ferroli, Direttore di Unità Operativa Complessa di Neurochirurgia Vascolare e del Basicranio del Besta è quello che si può definire una vera eccellenza italiana. Un genio con un’anima pura e un sogno: che a nessuno accada più quello che è accaduto a suo padre nel 1980, morto a poco più di 40 anni per un aneurisma non curato.

Come sei arrivato dove sei adesso?
«Avevo 13 anni e mi sono scontrato con la malasanità e le disparità sociali. Vengo da una famiglia semplice. Mio papà era uno stuccatore, friulano, ai miei occhi un eroe inaffondabile. Un venerdì viene colpito da un mal di testa fortissimo che non passava con niente, non riusciva ad alzarsi, non lo avevo mai visto malato. Nel pomeriggio lo portiamo al pronto soccorso. Di venerdì in ospedale non c’era molta gente così decidono di programmare tutti gli esami diagnostici per la settimana successiva. Gli fanno solo una tac dalla quale però non si capiva l’origine del problema, per quello sarebbe servita un’angiografia, ma non c’era personale e l’avevano fissata per il mercoledì successivo. Mio padre si è spento la notte stessa. E noi non potevamo crederci, sapevo che avrebbero potuto fare di più. Ricordo bene la sensazione di distacco. Ricordo la rabbia, la sensazione che mi fosse stato portato via il papà perché non gli era stata data l’attenzione necessaria. Poi quella sensazione di essere stati trattati dall’alto in basso, lì ho pensato “io con questi stronzi ci voglio avere a che fare solo da pari”. Quando poi ho avuto il desiderio di capire cosa fosse successo a mio padre ho capito che dovevo studiare medicina, non avrei più permesso che ad altri succedesse la stessa cosa. Tutti hanno diritto ad essere curati al 100%».

Eri ancora molto giovane.
«Sì, e non è stato facile. L’unico reddito era quello di mio padre, mia madre non lavorava, mia sorella era disoccupata ed io volevo fare il liceo. Siamo andati avanti grazie alle collette mensili dei parenti dei miei, e all’associazione di San Vincenzo. Mi commuovo al solo pensiero di quel periodo».
È bello commuoversi.
«Sì, mi capita anche con i pazienti e i malati, è un bel modo di darsi forza».
Torniamo agli studi.
«Grazie alla media alta del liceo mi sono iscritto alla facoltà di Medicina a Torino, le cose andavano meglio, mia madre aveva trovato lavoro come operaia. Non avevamo molto ma bastava. Quando uscivo con i miei amici loro mi spalleggiavano, io ordinavo acqua e loro mi giustificavano dicendo che ero in dieta atletica. Mia madre segnava le spese su un quaderno, potevamo spendere 20mila lire al giorno, non di più».
Provavi più rabbia o determinazione?
«Solo determinazione, la rabbia era passata, era l’emozione del primo periodo. Nella mia vita sono stato solo determinato, anche a scoprire cosa fosse successo davvero a mio padre. Durante la tesi avevo accesso all’archivio delle Molinette, aprii il suo fascicolo, lo studiai, e capii che la sua diagnosi era stata completamente errata. Ma la rabbia non c’era più, anzi mi ero reso conto che probabilmente se gli avessero salvato la vita la sua esistenza sarebbe stata molto difficile in quelle condizioni. Nel tempo ho quasi ringraziato Dio della sua morte, ho sviluppato un’idea di distacco, ho compreso che c’è un disegno più alto di noi».

Sei religioso?
«Sì, ma prego al bisogno e per ringraziare. Mia mamma ha pregato fino all’ultimo giorno per i miei interventi».
Dimmi il tuo primo successo, quando hai capito di aver scelto la strada giusta.
«All’inizio dell’università, ero spaventato pensavo sarebbe stata molto difficile, invece ho iniziato a mettere in fila solo 30 e 30 e lode, allora ho capito di aver scelto la strada giusta».
Cosa ti piaceva di più?
«La chirurgia, avrei operato qualsiasi cosa, volevo conoscere il corpo umano e muovermi con la stessa confidenza con cui mi muovevo tra le mie montagne».
Sarà stato facile scegliere la specializzazione.
«No, per niente, perché c’erano tanti elementi da prendere in considerazione, primo fra tutti quello economico vista la mia situazione. Così dopo aver chiesto con molta fatica la tesi al Prof. Pani, un giorno arriva in facoltà un professore di ginecologia fighissimo, era gentile, parlava benissimo e guidava una Porsche! Mi prendo una specie di sbandata! Su due piedi cambio idea e decido di chiedere la tesi a lui».
Poi cosa è successo?
«Ho capito con l’esperienza che non faceva per me. Era diventato ricco e famoso per aver inventato un intervento per il cancro della vulva. E devo essere sincero, non ce l’ho fatta».

Sei tornato alla testa.
«Sì, ma il prof. Pani mi ha fatto penare due mesi prima di darmi retta ancora una volta, era un uomo coltissimo e militaresco, ma con testardaggine riuscii a farmi accettare di nuovo la tesi. Sono rimasto con lui due anni ed ho avuto la fortuna di essere tra i primi specializzandi ad essere pagato, un milione 700mila lire».
Sei rimasto sempre nel pubblico?
«Sempre».
Hai mai pensato di andare via dall’Italia?
«No, mai».
Di chi va via cosa pensi?
«Che oggi è tutto diverso, le condizioni e le prospettive non sono le stesse che avevo io. Penso che l’Italia non sia andata molto avanti in questi 20 anni, credo che si sia quasi obbligati ad andare via. Tra noi e i paesi che offrono lavoro non c’è gara vincono gli altri, mi è capitato di perdere bravissimi medici che qui non hanno trovato sbocchi e possibilità. Il punto non è trovare lavoro ma avere un lavoro che ti faccia crescere e sviluppare le tue competenze».

In Italia secondo i dati Istat il 3,8% della popolazione non si è curato nell’ultimo anno a causa delle liste d’attesa.
«La ricetta sarebbe molto facile, basterebbe che le risorse venissero aumentate a seconda della richiesta. Ma questo nel pubblico non è semplice. Noi spesso abbiamo sale operatorie che chiudono alle 3 del pomeriggio, forse in un mondo ideale vista la quantità di gente che aspetta di essere operata le sale operatorie dovrebbero essere aperte 24 ore con personale adeguato. Basterebbe fare dei turni e mettere a frutto quello che abbiamo: 5 sale operatorie e macchinari strepitosi».
Ma perché non avviene?
«Bisognerebbe chiederlo a chi gestisce la sanità, noi lo chiediamo ma non si riesce a realizzare, non c’è personale e c’è sempre qualche ragione per cui non si può».
Ti dico delle parole e mi rispondi di getto: Amore.
«Figli».
Amicizia.
«Solidarietà».
Passione.
«Lavoro».
L’ultimo libro che hai letto?
«Fiore di roccia di Ilaria Tuti, celebra il coraggio delle donne, delle portatrici Carmiche al fronte accanto ai militari durante la Prima guerra Mondiale».
L’ultimo film che hai visto?
«Sai che non mi ricordo l’ultima volta che sono andato al cinema? Ma ho rivisto con i miei figli C’era una volta in America».
L’ultimo viaggio che hai fatto?
«Grazie al mio lavoro viaggio tantissimo, l’ultimo a Taormina per un convegno, a breve andrò in Sud Africa, è uno dei motivi per cui penso di aver scelto bene, in questo lavoro sono molte più le soddisfazioni dei dolori».
Se avessi solo un desiderio quale sarebbe?
«Questa è difficile. Ma pensandoci bene ti direi che l’uomo la smettesse di vivere come se non ci fosse un domani, che iniziasse a pensare a chi verrà dopo di lui».

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