Ben 42.2 chilometri, 26.2 miglia. Questa è la distanza regolamentare per ogni maratona. Ma quella di New York, tra tutte, è sicuramente la più memorabile e la più desiderata dai maratoneti di tutto il mondo. In questa edizione oltre 55mila persone hanno tagliato il nastro di partenza, 51.422 al traguardo. Il più giovane finalista il diciottenne piemontese Pietro Saranga, il più anziano l’ottantasettenne statunitense Danil Farkash. 2368 erano italiani, la seconda comunità più numerosa dopo gli statunitensi e – a giudicare dal tifo affettuoso – una delle bandiere più amate. È stata la mia prima maratona, non sono un’atleta e nemmeno una sportiva. Tagliare il traguardo è una vera e propria sfida contro i propri limiti, non è solo una estenuante prova fisica. C’è un punto in cui per tutti, atleti e non, il corpo soffre. È la forza di volontà a spingere verso il traguardo.

Per New York la maratona è un evento comunitario, ma anche una enorme macchina da soldi. Tutto genera indotto, e l’organizzazione è impeccabile. Hotel, ristoranti, merchandising, fotografie ricordo, biglietti dei musei. La TCS NYC Marathon è di per se stessa in grado di generare volumi enormi che si aggiungono ai flussi turistici della città che non dorme mai. Prima della giornata clou, gli iscritti ricevono via mail decine di comunicazioni legate a manifestazioni secondarie, proposte di donazione, informazioni operative. E in effetti persino il ritiro del pettorale è un piccolo evento con migliaia di volontari ad incanalare i flussi, distribuire magliette. Il visitatore trova in questo enorme centro congressi scenografie create per favorire gli scatti fotografici, stand degli sponsor, preparatori atletici per suggerire strategie. La domenica mattina, centinaia di autobus e traghetti fanno la spola per trasportare gli atleti al punto di partenza sul ponte di Verrazzano. C’è cura anche nel post gara, visto che dalla apposita app è possibile consultare i grafici della propria performance o acquistare le fotografie scattate lungo il percorso.

È il business dei grandi eventi sportivi, insomma, con cui in Italia dovremmo fare una buona volta i conti attrezzandoci di conseguenza. Ma la maratona non è solo profitto – cosa che per altro genera posti di lavoro – è anche vetrina per le associazioni di volontariato che hanno sviluppato una capacità esemplare nella raccolta fondi. Non si può paragonare il nostro non profit alle charity organizations statunitensi, per il differente tessuto sociale e il cosiddetto welfare state. Certamente il percorso di Riforma del Terzo Settore avviato nel 2017 in Italia durante il governo Renzi suggerisce anche a casa nostra nuovi strumenti fiscali e buone prassi per potenziare donazioni, filantropia e capacità delle organizzazioni di promuovere le proprie attività. Tornando a New York, è stupefacente come una metropoli di questa entità fermi per ore il suo traffico caotico senza lamentele, per festeggiare e spronare gli atleti. Don’t quit, I’m so proud of you. You did it. Non abbandonare, sono così orgoglioso di te, ce l’hai fatta. Sembrano parole di circostanza, in realtà tutta questa gente ci crede davvero.

Persino il sabato prima della gara, durante la messa nella cattedrale di St. Patrick, i maratoneti salgono sull’altare per la benedizione e gli applausi dei fedeli. New York, e Manhattan in particolare, ha un costo della vita altissimo. Per mantenersi si deve lavorare molto, e chi ci vive ammette che si sacrificano i rapporti umani. Il paradosso di una metropoli dove vedi milioni di persone e non incontri nessuno. La maratona per certi versi risveglia la normalità fatta di buon vicinato e sano divertimento. Il vincitore di questa edizione è l’etiope Tamirat Tola con un tempo di 02:04:58 ore e l’Italia si è classificata in settima posizione grazie alle 02:10:54 ore di Iliass Aouani. Io ho tagliato il traguardo in posizione 50.885 dopo 7:44:16 ore, e ancora mi chiedo cosa possa spingere così tanti spettatori ad attendere al freddo anche l’ultimo maratoneta. Personalmente non credo che ce l’avrei fatta senza di loro. La Grande Mela è un crogiuolo multietnico. Il percorso parte da Staten Island, e il traguardo è a Central Park il polmone verde di Manhattan, passando prima per Brooklyn, il Queens, il Bronx.

È un vero viaggio attraversare i quartieri di questa città degli estremi. Divisa tra storia e high tech, moltitudine e solitudine, lusso e povertà. Cambiano persino musica e balli tra una zona e l’altra, frutto di migrazioni vecchie e nuove. Passando si vedono grigliate in famiglia sul marciapiede, canti gospel fuori dalle chiese, anziani seduti in carrozzina a godersi il momento, bambini con provvidenziali cioccolatini. Non è meno interessante chi ti trovi di fianco nella corsa. Competono gli atleti professionisti – anche con disabilità – per cui la gara è frutto di mesi di dura preparazione e strategia. La maratona è per tutti una cosa seria, pure per chi la fa “semplicemente” camminando. Non solo perché è una prova fisica estrema, ma anche per le motivazioni che spingono a partecipare. C’è chi corre per una causa sociale, o per raccogliere fondi per una associazione di volontariato. Altri partecipano per una scelta più intima, per un figlio venuto a mancare, per avere battuto il cancro, padri e figli, ultra ottantenni. Ci sono i team dei quartieri difficili, che praticano l’inclusione attraverso lo sport. Anche io ho i miei perché. E sicuramente è stata una esperienza di vita unica, e indimenticabile.