Tutti celebriamo il coraggio e la dedizione dei nostri medici e dei nostri infermieri, della Sanità intera. Dopo anni di polemiche e di speculazioni sulla malasanità, sugli sprechi, sugli ospedali fantasma, sulle improbabili carriere dei baroni della medicina, di colpo il Paese scopre l’importanza di avere a disposizione un personale sanitario di livello e di grande generosità. Non è cosa da poco e non è un sentimento dettato solo dalla paura del contagio, dalla necessità di aggrapparsi a chi ha in mano la vita delle persone. In fondo tutti costoro oggi possono fare poco. Non c’è ancora una cura.

Possono solo attaccare i pazienti a un respiratore, somministrare farmaci che favoriscano la respirazione, accompagnare la vita dei più fragili e malati verso l’epilogo. Eppure non c’è persona che oggi in Italia non si senta tranquillizzata da quei camici e da quegli ospedali, che non sia grata verso chi – con grandi rischi e sacrifici – sta esponendo la propria esistenza al servizio dei malati. È un punto di svolta importante, segna il costituirsi di un capitale umano, sociale, politico che non dovrà andare disperso quando la falce del virus si sarà placata e la collettività tornerà a fare i conti con la vita nuova che ci attende. Perché, sia chiaro, sarà e deve essere una vita nuova anche sotto questo profilo.

L’entità delle risorse pubbliche destinate alla sanità e all’assistenza sarà un tema cruciale del modo in cui saremo portati a intendere lo Stato e le sue funzioni e questo dopo anni di tagli agevolati da una percezione sostanzialmente negativa di quel mondo. Percezione alimentata, deve essere detto, anche da ben individuati centri di interesse ostili al sistema sanitario pubblico. Si dovrà porre con estremo rigore e senza tentennamenti il tema del regionalismo sanitario frettolosamente voluto dalla riforma costituzionale del centro-sinistra con l’intento di porre rimedio, pure in questo delicato snodo, alle spinte indipendentiste e autonomiste della fine dello scorso millennio.

La situazione che si è creata è sotto gli occhi di tutti. L’Italia non è stata fortunata nell’espansione del contagio, ma ha almeno avuto la ventura di vedere attinte le popolazioni in cui più forte e organizzato era il sistema sanitario, più ingenti le risorse impiegate, più efficiente la rete dei servizi. Eppure anche quelle regioni soffrono e sono al limite. Hanno bisogno di risorse umane e di mezzi e malgrado ciò reggono l’urto e fronteggiano la crisi. Adesso la speranza dei virologi è che le nuove, drastiche misure imposte dal Governo non espandano la pandemia al Sud del paese, perché lì – inutile negarlo – sarebbe una catastrofe. I tanti fuggiti di notte da Milano verso le regioni del Mezzogiorno non avevano l’esatta percezione del rischio a cui stavano esponendo se stessi e gli altri con questo inutile azzardo.

Se il contagio partisse massicciamente in Sicilia o in Calabria o in Campania il deficit organizzativo e funzionale rischierebbe di travolgere le popolazioni prive di una rete sanitaria neanche comparabile con quella del Nord. È un rischio enorme quello che cui milioni di italiani sono esposti che non potrà più ripetersi e che esigerà misure drastiche. I commissariamenti disposti dal Governo, i piani di rientro non hanno fatto che aggravare la situazione, portando al collasso un sistema sanitario meridionale che vede, ogni anno, decine di migliaia di persone spostarsi al Centro-nord per ricoverarsi in quelle strutture e in quegli ospedali e lasciare al Sud i meno abbienti e i marginali.

Passata la falce del virus non potrà tollerarsi che sopravvivano le inefficienze e le incapacità che si sono cumulate in questi venti anni e di cui nessuno si è occupato: le forze politiche radicate al Nord perché hanno coltivato il mito della superiorità di quelle élite amministrative, le forze politiche radicate al Sud perché hanno adoperato la sanità prevalentemente come risorsa del consenso e bacino del malaffare. Per carità, non che anche al Nord si siano fatti mancare corruzioni e casi gravi, ma al Sud a questo si è aggiunta la sfrenata ingordigia delle classi dirigenti che hanno utilizzato la sanità per sistemare accoliti (troppe volte incapaci) e drenare vantaggi.

La rifondazione del sistema sanitario è un compito immane che, a occhio e croce, prescinde dalle capacità della politica in auge completamente priva di un disegno strategico al riguardo e dilaniata da micragnosi conflitti sulla prescrizione o sulle concessioni autostradali. Porre mano alla sanità equivale a porre mano alla vita delle persone per un profilo radicale e fondamentale perché le diseguaglianze sono sotto gli occhi di tutti e l’angosciante attesa di questi giorni circa il capriccioso e imprevedibile espandersi del contagio non è altro che la prova del vicolo cieco in cui il Paese è finito. La prima infrastruttura di cui l’Italia ha urgenza è quella sanitaria, uguale per tutti, priva di discriminazioni, senza dovere come in questi giorni lanciare i dadi della fortuna nel bussolotto macabro della nuova peste.