Promossa, la mattina, perché – intervistata su Rai 3 a Agorà con tono gentile ma fermo – Giorgia Meloni è stata esplicita con l’alleato leghista: “Non intendo vivacchiare a Palazzo Chigi. Rinuncerò all’impegno e all’onere di guidare il Paese solo se e quando dovessi rendermi conto che non ho più il consenso degli italiani o se me lo dovesse chiedere mia figlia. Per questo la mia linea rossa è raggiungere il 26% alle Europee”. Dumping al ribasso perché il vero obiettivo era il 30%, il 26% è già in tasca. Messaggio per Salvini: non mi faccio sfibrare, se insisti il governo salta prima.

Bocciata, invece, nel pomeriggio. Perché per quanto netta e chiara nelle comunicazioni prima del Consiglio europeo (21-22 marzo) sul posizionamento euroatlantico dell’Italia, la premier non è risultata credibile illustrando la Relazione. Ha giurato l’appoggio incondizionato all’Ucraina ma ha ignorato il filoputinismo che Salvini, suo vicepremier, non perde occasione per rivendicare. Ha rivendicato un presunto ruolo di attore protagonista in questa stagione politica europea “perché io parlo con tutti e rifiuto lo schema per cui ci sono interlocutori di serie A e di serie B” ma poi, se c’è da decidere qualcosa di pesante, il vertice a tre vede nella fotografia Macron-Scholz e il polacco Tusk.

Poco credibile, Giorgia Meloni, agli occhi di osservatori e analisti politici perché nella giornata rituale ma sempre importante in cui il Presidente del Consiglio illustra al Parlamento i temi all’ordine del giorno del Consiglio Ue e la posizione che terrà il governo, è stata snobbata da un importante socio di maggioranza. Nei banchi del governo ieri sedeva tutto l’esecutivo al gran completo tranne i ministri leghisti: assente il vicepremier Salvini; assente il ministro per le Riforme Roberto Calderoli (arrivato solo per la replica); seduto su uno strapuntino laterale il ministro economico Giancarlo Giorgetti.

Il governo Meloni ha un elefante nella stanza, si chiama Matteo Salvini e anche Lega. Per quanto finora abbia fatto finta di ignorarlo e ridimensionarlo, adesso non è più possibile perché l’elefante si muove, si agita e ha un obiettivo preciso: azzoppare l’asse Melonivon der Leyen ed impedire che Fratelli d’Italia, con la famiglia politica dei Conservatori, possa dare le carte nella futura Europa. Sarà così fino alle elezioni europee (8-9 giugno), ci saranno acuti e quasi strappi, le occasioni saranno i soldi all’Ucraina per difendersi e difenderci, le sanzioni a Mosca (il Consiglio ne approverà di nuove), gli ammiccamenti a Putin. Per stare nel giardino di casa, la Lega cercherà di accelerare sull’autonomia regionale, sul Ponte sullo Stretto, sul terzo mandato e su tutto quello che capiterà lungo la strada. Poco credibile, infine, Giorgia Meloni perché in fase di replica ha esagerato. Le capita spesso, quasi sempre, ieri un po’ meno di altre volte ma alla fine la leader di partito e il comizio hanno preso il sopravvento.

Nella Relazione la premier ha ribadito il sostegno all’Ucraina, ha rivendicato che lo sblocco dei fondi è stato anche merito dell’Italia (cioè suo che ha convinto Orban), ha ribadito perché l’Ucraina “è il nostro interesse nazionale” e ha condannato, non lo aveva mai fatto, “l’omicidio politico di Alexei Navalny”. A Bruxelles si parlerà di Difesa e politica estera europea e l’Italia sarà favorevole perché “vuol dire autonomia, capacità di contare e di decidere”. Si parlerà di Gaza e di Israele, della soluzione “due popoli e due stati”, dell’allargamento ai paesi balcanici, di immigrazione e della ricerca di una soluzione strutturale che passa anche da accordi come quelli con la Tunisia e con l’Egitto “che spero non vorrete ostacolare”. Nessuno scambio, è la promessa, con gli assassini di Regeni. A Bruxelles si parlerà anche di agricoltura (“merito nostro”) e “siamo stati i più bravi con le nuove regole per gli imballaggi”.

Fin qui, si diceva, un clima ecumenico con qualche omissione, tutto sommato andamento sonnacchioso se non fosse per il ragazzino di liceo seduto in tribuna che ha mimato una pistola con le dita e l’ha “puntata” contro il banco del governo. La prof gli ha quasi staccato le dita. Poi arriva il tempo della replica della premier al dibattito generale, e Meloni indossa i panni della leader di un partito, dice che va tutto bene, rivendica le performance del suo governo e cade vittima di una serie di autogol. “Diventa l’incredibile Hulk senza alcuno zelo istituzionale”, l’accusa Patuanelli (M5S). La premier attacca Pd e Italia viva: “Adesso vi sta bene la Polonia perché c’è Tusk, prima con la destra al governo era un paria”. Attacca i 5 Stelle e Conte: “L’unica cosa concreta che gli ho sentito dire sulla pace è che Zelensky dovrebbe togliere la mimetica e mettere la cravatta. Capisco, del resto lui ha governato con la pochette”. Livello da bar. Scarso, anche.

Rispondendo ai senatori Filippo Sensi (Pd), Ivan Scalfarotto (Iv) e Dolores Bevilacqua (M5S), lo sforzo ecumenico si disintegra di fronte ai dati di fatto e alle contestazioni sui numeri. Carlo Calenda (Azione) le consiglia di “evitare toni trionfalistici quando dice che Pil, buste paga e Borsa sono tutti in crescita. La famiglia media ha una percezione del tutto diversa”. Calenda la mette in guardia sull’Ucraina: “Dobbiamo dire la verità, così com’è Kiev non riuscirà più a difendere i suoi confini”. Matteo Renzi la inchioda sullo stato di diritto: “Non è che la Polonia ci sta bene adesso perché Tusk è al governo mentre prima c’era Morawiecki. La differenza è che Tusk garantisce quello stato di diritto che prima non c’era”. E comunque, “siccome la politica estera, come dice lei, non si fa con le foto, neppure quelle con Modi o Biden, le dico che al tavolo con Scholz e Macron ci doveva essere l’Italia e non la Polonia”. Il leader di Iv mette l’aut aut su Ursula von der Leyen. I banchi della Lega diventano improvvisamente attenti.

“Per noi – dice Renzi – ma anche per lei visto che critica le politiche agricole firmate da un conservatore polacco del suo gruppo e tutte le politiche di transizione energetica, la presidente von der Leyen è stata un disastro e non è ricandidabile. Lei cosa farà presidente Meloni?”. Era partita bene la premier. Poi ha perso la strada. Francesco Boccia, capogruppo Pd, le ha rinfacciato le parole pronunciate dal senatore Menia su Macron (“pruriti muscolari nonostante gli atteggiamenti femminei”) e ha chiesto se le condivide. Sempre Boccia ha ricordato gli attestati di stima che la leader distribuiva a Putin. In fondo era solo il 2019. A quel punto Meloni è precipitata. Con queste premesse, a Bruxelles non sarà una facile missione.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.