Sergio Fabbrini è professore ordinario di scienza politica e relazioni Internazionali e direttore del dipartimento di scienze politiche presso la Luiss.

C’è chi a caldo, nel commentare i risultati del voto di domenica, ha parlato e scritto di elezioni “storiche”.
Non sono di questo avviso. Vede, per definire un’elezione “storica” occorre avere alcuni fattori. Ad esempio, un deciso e consapevole spostamento dell’elettorato, quello che nel gergo della scienza politica americana si chiama il riallineamento elettorale. E una leadership consolidata che rappresenti questo riallineamento elettorale con una chiara prospettiva. E qui non abbiamo né l’uno né l’altro. Siamo ancora dentro una lunga transizione che è iniziata nel 1991-‘92 con Tangentopoli e che ancora non ha trovato un suo equilibrio, una sua conclusione. Una transizione che poteva chiudersi sul piano istituzionale ma i sentimenti anti riformisti diffusi nella classe politica e nel Paese hanno bocciato ogni tentativo di creare un nuovo equilibrio istituzionale oppure una transizione che poteva concludersi con un nuovo assetto del sistema partitico. E noi siamo ben lungi di avere un nuovo assetto del sistema dei partiti. Forse andrò controcorrente, ma difficilmente si può parlare di riallineamento elettorale per una elezione che ha visto il calo del 10% di partecipazione elettorale rispetto ad appena quattro anni e mezzo fa. C’è stato un incremento dell’astensionismo che va al di là di tutti i regolari decrementi di partecipazione elettorale che noi abbiamo registrato in altre democrazie. Qui siamo di fronte a un fatto davvero senza precedenti: 10% in meno di italiani sono andati a votare rispetto al 2018. Tenga presente che l’Italia che è stata tradizionalmente, nella prima Repubblica, il Paese con la più alta partecipazione elettorale, anche perché per un certo periodo il voto era obbligatorio, oggi è il Paese con la più bassa partecipazione elettorale. È un problema che merita una seria riflessione. Questo declino della partecipazione elettorale colpisce in modo particolare il Sud.

E cosa sta a testimoniare questo dato?
Testimonia che il Sud ha un sistema politico-elettorale, direi più generalmente democratico, che seppure incastrato dentro il sistema politico nazionale, ha tutta una serie di specificità che lo rendono ancora oggi diverso, sul piano politico-elettorale e del funzionamento del sistema democratico, dal resto del Paese. Siamo in una transizione. Credo che queste elezioni testimonino il “mondo fluttuante” della politica italiana. Chi può seriamente pensare che nel 2018 aveva raggiunto a mala pena il 4% e in quattro anni e mezzo sia diventato un partito – mi riferisco a Fratelli d’Italia – un partito egemone, stabile, consolidato al 26%. È evidente che non avrebbe senso pensare una cosa del genere. Qui siamo di fronte a un fenomeno che io chiamo la “politica fluttuante” che aveva portato Renzi, nel 2014, al 40%, i 5Stelle al 30% nel 2018, la Lega anch’essa a più del 30% nel 2019. Oggi Salvini che fino a ieri sembrava il padrone della politica italiana è un leader con una posizione a forte rischio, così come Renzi che aveva avuto il 40% fa fatica a riemergere, e lo stesso si può dire per il Movimento 5Stelle. Siamo di fronte ad una situazione molto fluttuante. Per di più se pensiamo che Fratelli d’Italia è balzato in poco tempo dal 4 al 26%, è passato non perché ha creato nel Paese relazioni, legami, una nuova classe dirigente nei governi locali. Ha fatto questo salto per ragioni che hanno a che fare più con lo spirito dei tempi, per cui si ritiene che una persona che è stata fuori da tutte le cariche politiche sia la novità che possa risolvere il problema. Da questo punto di vista così come è salita non mi pare difficile ipotizzare che scenderà. A tutto ciò aggiungerei che la coalizione vincitrice è divisa su questioni basilari.
È divisa sulla politica interna. Nel Pnrr è evidente che Meloni dirà io voglio incassare il mio 26% e voglio rivedere il Pnrr. Ma quel Pnrr è stato fatto, elaborato, implementato da una coalizione di governo, quella di Draghi, in cui c’erano anche Forza Italia e Lega. Ora se Meloni andrà in questa direzione è come se scomunicasse Forza Italia e Lega. D’altra parte non può non andare verso qualche cambiamento perché altrimenti non si capirebbe perché lei ha vinto queste elezioni stando fuori da quel governo. Io vedo lì degli scricchiolii tremendi. Per di più l’Europa ha detto molto chiaramente che se si va verso una revisione del Pnrr è come aprire il vaso di Pandora. Verranno fermate le quote che noi dobbiamo avere. Revisione degli investimenti, che vuol dire usiamo i fondi non per questa spesa ma per quell’altra oppure revisione delle riforme? Perché il Pnrr si basa su un binomio inestricabile, per chiunque lo studi e lo conosca. Che è il binomio fra riforme e investimenti. Viene fermata, per fare un esempio, la riforma della competizione, dell’apertura dei mercati, che vuol dire apertura del trasporto urbano, apertura delle concessioni balneari oppure che cosa? Se Meloni mette in discussione il Pnrr ovviamente deve mettere in discussione non solo gli investimenti ma anche le riforme. Ma se mette in discussione in particolare le riforme, noi soldi dall’Europa non li riceviamo più. Ma anche sul piano della politica estera. È vero che Meloni è in continuità paradossale con il governo Draghi, di cui non ha fatto parte, nel sostenere l’Ucraina, ma gli altri due parti della coalizione sono sempre non dico manovrati ma influenzati, condizionati dalla Russia di Putin. E come fanno ad avere una comune politica estera? A me sembra che siamo di nuovo dentro un ciclo, quello della lunga transizione, in cui non c’è un punto di equilibrio. Su questo versante chi ha vinto le elezioni non necessariamente e in grado poi di vincere la prova di governo. Chiaramente il problema vale anche per l’altra parte.

Quella degli sconfitti, i campi del centrosinistra.
Lì ci sono stati degli errori strategici che non hanno aiutato a concludere la transizione. L’errore principale che è stato compiuto dal Pd, al di là delle responsabilità individuali che non m’interessano, è di non aver creato un’aggregazione intorno alla difesa del governo Draghi. Il Partito democratico non ha fatto del governo Draghi, che forse è stato il primo governo che avrebbe potuto concludere la transizione, della difesa di quel governo e della sua eredità la base su cui costruire un partito riformista che sta dentro l’Occidente in modo critico, che sa governare l’Occidente ma che sa anche affrontare le sfide dell’Occidente, tra cui quella delle disuguaglianze. Spostarsi sulla sinistra ha voluto dire affrontare solamente i problemi della diseguaglianza, con persone che tra l’altro sono poco rilevanti dal punto di vista politico-elettorale, come Sinistra Italiana, i Verdi, abbandonando il terreno della lotta alle diseguaglianze da un punto di vista riformista e non da quello radicale. E d’altra parte anche il cosiddetto terzo polo, che poi il voto ha determinato come quarto polo, non ha trasformato il suo richiamo a Draghi e a quella “Agenda” in un richiamo da spingere ancora più avanti. Centro e sinistra dovranno per forza ricomporsi e facendo questo una parte del Pd se ne andrà via. Come avviene in tutte le democrazie, c’è una sinistra radicale, che per molti aspetti ha anche degli umori anti europei se non addirittura anti americani. E poi c’è questa vicenda dei 5Stelle che secondo me non è comprensibile se non nella prospettiva della differenza materiale e culturale del sud italiano dal resto del Paese e probabilmente al resto dell’Europa.

Vale a dire?
È chiaro che lì vince una proposta che è fondamentalmente assistenzialistica, cioè quella del reddito di cittadinanza. Basti pensare che nella città di Napoli circa un terzo degli abitanti è beneficiato dal reddito di cittadinanza. È un approccio allo Stato in cui lo Stato è solamente un fornitore di vantaggi ma che non appartiene alla gente in questione. Confondere questo con la componente di sinistra della politica italiana vuol dire commettere un errore ingiustificabile. Qui non c’entra la sinistra, non c’entrano niente i poveri, qui c’entra una cultura che ancora trova difficoltà a fare i conti con l’idea che l’Europa cerca di promuovere, cioè l’idea che tu devi governare dentro i vincoli, che non puoi spendere se non ha risorse a bilancio, che le riforme sono sempre riforme mettono in discussione interessi, che non solo o quelli di grandi capitali ma anche interessi di piccoli privilegi popolari. Il reddito di cittadinanza ha favorito il lavoro nero, una serie di cose che Draghi cercava di riorganizzare ma è stato fermato. O si fanno quelle riforme istituzionali che garantiscono la stabilità oppure si costruiscono le condizioni politiche della stabilità. Nel primo caso c’è da guardare alla Francia. Nel secondo alla Germania. Quella tedesca è una democrazia che si basa su partiti forti, non necessariamente su istituzioni forti ma su partiti forti. Noi non abbiamo né istituzioni forti. E così siamo dentro un “mondo fluttuante” in attesa di un punto di equilibrio che ancora non c’è.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.