La consumata espressione “arrivare a mangiare il panettone” non è mai stata tanto calzante, per il governo. Perché al panettone per antonomasia, quello della vigilia di Natale, potrebbe non arrivare la maggioranza che abita le stanze di Palazzo Chigi. Lo scontro sul Mes, stante il muro di Bruxelles, avvelena ulteriormente il clima che tra le due principali forze di governo si sta facendo irrespirabile. La missione di Gualtieri sembra non avere margine. L’Europa ha detto chiaro e tondo che sul Meccanismo di stabilità non c’è trippa per gatti, per voce del presidente dell’Eurogruppo di turno, Mario Centeno, che ha di fatto calato il sipario sull’ipotesi di un rinvio con annessa modifica della riforma del Meccanismo. «L’accordo era già raggiunto a giugno», ha fatto sapere Centeno. Come a dire: era stato il governo giallo-verde a firmarlo, erano stati Di Maio e Salvini. L’argomento è chiuso.

Di Maio però si agita, e molto. Incalzato da una fronda interna solo in apparenza sedata da Beppe Grillo, sa di essere seduto sull’orlo del precipizio. Gli ultimi sondaggi (quello di Ixé è del 3 dicembre) indicano una intenzione di voto per i Cinque Stelle del 15,9%, la più bassa degli ultimi quattro anni e ben al di sotto della metà dei voti conquistati nel 2018. E davanti a Giovanni Floris che gli chiede di scegliere tra Salvini e Zingaretti svicola: «Non sto con nessuno dei due. Sto con gli italiani». I quali però, a giudicare dagli umori sondati, non ricambiano. Incassato il taglio dei parlamentari, appurato il flop del reddito di cittadinanza, deflagrato l’epic fail dell’Ilva, la sensazione è che Di Maio sia rimasto a corto di cartucce. Il carcere per gli evasori fiscali e l’affondo sulla prescrizione sono tutto quel che gli rimane in mano, ma gioca al tavolo come un pokerista molto nervoso.  Gli altri giocatori non stanno a guardare. Non passa la mano il capogruppo Pd alla Camera, Graziano Delrio, insolitamente tranchant: «L’approccio di Di Maio non mi piace. Ricattare gli alleati non può essere un metodo», ha detto a Repubblica. Aggiungendo poi: «Non abbiamo paura delle elezioni. Non l’avevamo neanche la scorsa estate quando ancora non si erano verificate due scissioni (Renzi e Calenda, ndr) e avremmo potuto rafforzare il Pd correndo alle urne».

Da parte dei dem l’obiettivo è quello di «continuare a lavorare per sbloccare investimenti fermi da due anni, stimolare il lavoro per i giovani, mettere i soldi nelle tasche dei lavoratori dipendenti come abbiamo già cominciato a fare con la manovra». Parole che ieri Zingaretti ha ribadito una per una: «Sono il lavoro, lo sviluppo, le difficoltà delle aziende i temi su cui lavorare, con spirito di squadra, come forze di maggioranza.  È il Paese a indicarci le priorità e l’urgenza di affrontarle. Tutto il resto, polemiche e furbizie, ci allontanano dalle persone». Che la tensione interna alla maggioranza sia arrivata oltre i livelli di guardia, rischiando di avere ricadute sulla tenuta stessa del governo, è chiaro sin dalla mattinata. «La nostra riforma dal 1 gennaio diventa legge, su questo non discutiamo», sentenzia un lapidario Di Maio dai microfoni del Gr1. «Invece Di Maio dovrebbe discutere», ci dice Emanuele Fiano, responsabile per le Riforme del Pd. «Noi siamo pronti a qualsiasi discussione, ma serve un punto di incontro». E indica un punto di partenza: «La questione della prescrizione non può essere considerata senza essere accompagnata da una visione di insieme che riguarda la durata del giusto processo». Intanto, Matteo Renzi, in un’intervista, ribadisce: «Ci sono due alternative, la prima è che la nuova maggioranza trovi una soluzione. E sarebbe meglio. Se non ci sarà accordo, voteremo il testo di Enrico Costa».

E il capogruppo renziano al Senato, Davide Faraone, rincara la dose: «Se il tema è prescrizione o morte, allora morte sia». Ma il capo politico dei Cinque Stelle insiste: «Sulla prescrizione credo sia opportuno mettere le cose in chiaro. La nostra riforma dal primo gennaio diventa legge. Su questo non discutiamo», scrive su Facebook. Roberto Giachetti è più deciso che mai, e gli risponde dichiarando al Riformista: «Se Di Maio pensa che i suoi ultimatum ci condizionino, ha capito molto male». «Il Pd non cerca e non vuole lo scontro e la rottura sulla giustizia, ma la pazienza non è infinita», è l’avvertimento lanciato dal capogruppo in commissione Giustizia Alfredo Bazoli, a cui segue a stretto giro l’aut aut del capogruppo Andrea Marcucci: «Di Maio forse non ha capito la gravità della situazione.  Non faremo passi indietro. Consiglio al capo del M5S di smetterla con le provocazioni». E su Twitter la sottosegretaria dem Alessia Morani osserva: «Ho l’impressione che sulla prescrizione si stia tirando troppo la corda». Per Walter Verini «i toni ultimativi e ai limiti dell’arroganza politica che usa Di Maio sono inaccettabili».  Anche Leu chiede a M5s di trovare una soluzione, con Federico Conte che invita a mettere fine agli ultimatum e a rinviare l’entrata in vigore della riforma. Giuseppe Conte si dice sicuro che «il governo non rischia la rottura». Ma se vorrà assaggiare il panettone a Palazzo Chigi, avrà un gran bel daffare.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.