Al teatro Parenti in scena una serata presentata da Michael Zantovsky, primo collaboratore dello statista e artista boemo
Milano celebra Havel e il paradosso della sua libertà: “La coscienza dell’uomo prima del progresso”
Riscoprire Vaclav Havel ripartendo dal suo pensiero e dai suoi scritti. Anzi: dalla sua macchina da scrivere arancione, esposta come un feticcio nel bel mezzo del palcoscenico milanese nella serata omaggio tenutasi nei giorni scorsi al Teatro Franco Parenti di Milano.
A dieci anni dalla scomparsa di Havel, avvenuta alla fine del 2011, e nel giorno di inizio ottobre che sarebbe stato il suo 85esimo compleanno, la Milanesiana, manifestazione ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, ha voluto celebrare, sotto l’egida dell’ambasciata della Repubblica Ceca in Italia, la figura dello statista, ex presidente della Repubbllica boema, che nella sua esistenza interamente politica è riuscito a non dismettere mai gli abiti più propri alla sua anima di intellettuale, scrittore, drammaturgo, principale protagonista di quella che fu definita “la Rivoluzione di Velluto” moto che con un approccio ideologicamente liberale, non violento, un mese e mezzo dopo la caduta del Muro di Berlino, riuscì a buttare giù anche il governo filosovietico fino ad allora al potere a Praga.
L’occasione milanese è coincisa con la pubblicazione, per i tipi de La Nave di Teseo, della biografia del grande autore ceco, intitolata Vaclav Havel – Una vita e scritta da Michael Zantovsky, amico personale, già portavoce del presidente Havel, diplomatico di lungo corso e ora direttore esecutivo della Biblioteca Vaclav Havel, massima istituzione deputata alla conservazione della memoria su vita e opere dell’ex Capo di Stato.
Zantovsky nella sua prolusione ha analizzato la critica del progresso e dell’idea stessa di Unione Europea tecnocratica presente nel pensiero di Havel. Lo ha fatto riportando frasi celebri dello statista. Da quella più famosa, del 1991, pronunciata di fronte al Congresso Usa, quando Havel confutò alla radice il primato marxista del mondo materiale: “La coscienza precede l’essere e non viceversa. Senza una rivoluzione globale nella sfera della nostra coscienza, nulla cambierà in meglio nella sfera del nostro essere uomini e donne, e la catastrofe verso la quale questo mondo è diretto – ecologica, sociale, demografica o un generale collasso della civiltà – sarà inevitabile”.
Fino al ritorno sul concetto di civiltà occidentale nell’intervento pronunciato da Havel al Senato italiano nel 2002, all’interno del quale si chiedeva se non fosse “giunto il tempo per l’Europa politica di riflettere sulla sua cultura o civiltà, il Pensiero Europeo” per tornare “a una delle tradizioni intellettuali più interessanti d’Europa: quella del dubbio e dell’interrogativo che iniziò nei tempi più remoti da Socrate”.
Un cammino a cavallo tra i due secoli che ha portato le parole di Havel a incrociarsi, talora addirittura sul filo dell’analogia, con altri giganti del Novecento quali sono stati Pier Paolo Pasolini con il quale condivise la critica all’omologazione, “fenomeno che permea la modernità occidentale”, fino ad arrivare a una visione non dissimile dall’ umanesimo mistico di Giovanni Paolo II, profondamente critico, tanto col marxismo quanto col neoliberismo capitalista. Tratti comuni che si ritrovano in epoche diverse: in opere della fase rivoluzionaria come Il potere dei senza potere del 1978 ma anche nel pamphlet Un uomo al Castello del 2007 in cui dando vita a una sorta di versione civile del Discorso della Montagna, si mette a confronto con i grandi della Storia che ha avuto modo di incontrare nel suo percorso politico.
Resta fondamentale nell’opera di Havel lo studio del linguaggio, fino a crearne uno inventato in Memorandum del 1965 e la visione dell’individuo come dimensione spirituale e sede della conoscenza che sussistere proprio nell’inseguimento coraggioso e tenace della libertà più autentica. Testi e tesi complesse che molti hanno messo in relazione con “il teatro dell’assurdo” che Havel, però, ha sintetizzato in una frase molto più semplice, quasi bambinesca, figlia dello stupore a cui più volte si richiama: “Ho il sospetto che da una qualche parte, in quella più profonda di me, tutta questa vita paradossale mi diverta moltissimo”.
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