Avrebbe potuto diventare segretario del Pci due volte
Napolitano signore della politica con un unico limite: l’eccessiva prudenza nel (non) scendere in campo
Era la scuola comunista che lo spingeva ad essere così felpato, anche troppo, e anche un limite personale, la paura di rompere più che quella di perdere
Giorgio Napolitano ha un posto d’onore nella lunga e tormentata vicenda della sinistra italiana, essendone stato per decenni un protagonista anche se mai in posizione di leader. Un grande dirigente di minoranza, si dovrebbe dire, anche se ai tempi e nel luogo (il Partito comunista italiano) dove agiva non prevedevano certo maggioranze e minoranze. Ma chi conosceva il Pci sapeva benissimo, ovviamente lui per primo, che le posizioni della “destra”, cioè dell’area riformista, erano minoritarie in un partito che malgrado tutte le evoluzioni restò fino alla fine ancora legato all’idea della sua superiorità morale e più in generale ostacolato da un impaccio nei confronti dell’idea di governo di un Paese complesso come il nostro. Napolitano, sulla scorta del suo maestro Giorgio Amendola, combatté dall’interno per fare del Pci appunto un partito di governo, dunque aperto alle alleanze politiche (i socialisti in primis), per introdurre quelle riforme che gradualmente migliorassero le condizioni dei cittadini italiani (di qui l’etichetta di “miglioristi” alla sua componente negli anni Ottanta), vincendo settarismi ed estremismi di ogni tipo.
Avrebbe potuto diventare segretario del Pci due volte, Napolitano, ma fu proprio lo stigma antiriformista a precludergli questa possibilità, una prima volta quando gli fu preferito Enrico Berlinguer e poi alla morte di questi quando si scelse il continuismo di Alessandro Natta (fu Luciano Lama a fare il nome di Napolitano) ma non era ancora l’epoca delle sfide a viso aperto, per quelle bisognerà aspettare il 1994 con la gara fra Massimo D’Alema e Walter Veltroni vinta dal primo. In questa sommaria ricostruzione c’è il vero limite di Giorgio Napolitano: la sua eccessiva prudenza nel (non) scendere in campo. Era la scuola comunista che lo spingeva ad essere così felpato, anche troppo, e anche un limite personale, la paura di rompere più che quella di perdere.
Fatto sta che alla fine il riformismo della “destra” non fece mai una battaglia sino in fondo, così che l’esito del dopo-Ottantanove paradossalmente non portò laddove era logico portasse, cioè alla socialdemocrazia di tipo europeo ma ad un nuovo partito – il Pds – che molto somigliava al vecchio pur rivestito di tratti “liberal” nemmeno troppo definiti. Ma allora per Napolitano si apriva un’altra fase della sua vita politica, quella dell’uomo di Stato, presidente della Camera, europarlamentare, ministro, infine Presidente della Repubblica. Eppure anche in questa seconda fase del suo impegno Napolitano portava la sostanza del suo riformismo, e instancabile fu l’azione per aiutare quel processo riformatore, innanzi tutto delle istituzioni, che non andò mai a buon fine per l’incapacità della politica, ivi compresa la lentezza, come minimo, del centrosinistra che tanto lo faceva penare, come ben sanno i protagonisti dell’Ulivo e i successivi dirigenti spesso richiamati anche duramente dal Capo dello Stato durante il suo “novennato” al Colle.
Ebbe ragione, Giorgio Napolitano? O lo dobbiamo considerare, alla fine, uno sconfitto? Fu Piero Fassino, allora segretario dei Ds, a tributare all’uomo politico napoletano il merito di aver visto le cose prima degli altri, e lo fece nel congresso dove i Ds si sciolsero in vista della formazione del Pd: l’applauso a quel passaggio del discorso di Fassino fu così caloroso che lo stesso Napolitano ne fu sorpreso. Ma era proprio così, lui aveva indicato l’orizzonte riformista molto prima di tutti gli altri, che vi giunsero anni e anni dopo, quando forse era troppo tardi. Ma fu anche isolato, e combattuto, da sinistra e da una destra che sotto l’impeto di Silvio Berlusconi ne fece un bersaglio costante, al quale peraltro resistette sempre con senso delle istituzioni. Barack Obama rimase colpito dalla forza del presidente italiano che tanto lo apprezzava. Un uomo coerente, Giorgio Napolitano, un signore della politica, uno che aveva capito molte cose prima del tempo, che è il segno tipico del riformista autentico.
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