Le politiche in materia di immigrazione, nell’ultimo trentennio, sono divenute centrali nel dibattito pubblico riguardante la legislazione in materia di sicurezza e hanno trovato una normativizzazione sistematica con il T.U. in materia di immigrazione D.Lgs. n. 286/1998 c.d. Turco Napolitano. Fu il primo governo Prodi, con il citato testo unico, a introdurre la detenzione amministrativa in Italia nei confronti dei migranti. Al tempo dell’esecutivo Prodi i centri erano denominati centri per il trattenimento ed assistenza, CPTA, ed il tempo limite del trattenimento era di trenta giorni, ovverosia venti giorni prorogabili di altri dieci. Questo limite è andato via via lievitando, arrivando ai diciotto mesi per come disposto dal decreto-legge n. 124/2023, emanato dall’esecutivo attualmente in carica.

Il legislatore aveva previsto la procedura di convalida e il controllo giurisdizionale, attualmente di competenza del Giudice di Pace, e anche una durata estremamente limitata del trattenimento, proprio nel tentativo di rendere la privazione della libertà personale legittima sotto il profilo costituzionale, sebbene non connessa al compimento di alcun reato. Tra le altre previsioni iniziali, quasi per addolcire la pillola, i centri erano nella loro denominazione iniziale, cambiata più volte nel corso degli anni, deputati ad una non bene specificata assistenza.

L’ennesima “truffa delle etichette”

L’attuale definizione di centri per il rimpatrio, CPR, scioglie ogni equivoco, chiarendone sin da subito la funzione, cioè liberarsi, anche non velocemente visti i tempi lunghi di trattenimento, del migrante che non ha fatto ingresso nel paese in base alla procedura dei flussi autorizzati. Tuttavia l’estensione dei limiti del trattenimento mette ulteriormente in risalto la portata afflittiva di questa misura privativa della libertà personale, che benché non rientri nel catalogo delle pene principali o delle altre pene che danno vita al circuito dell’esecuzione penale esterna, è a tutti gli effetti, per via della grande compressione della libertà personale, portatrice di effetti “sanzionatori”, seppur in assenza della commissione di un reato. Si tratta, unitamente alla “saga” delle misure di prevenzione, dell’ennesima “truffa delle etichette”.

Le rivolte da punire

Oramai, da decenni e senza grandi clamori, si assiste all’esondazione del potere punitivo dello Stato dagli argini costituiti dalle garanzie tipiche del sistema penale. Ed anche queste ultime divengono sempre più inconsistenti, a volte meri simulacri per salvare le apparenze. Aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata, sono queste alcune delle caratteristiche che si riscontrano nelle innovazioni legislative introdotte nel corso degli ultimi decenni. Ed in questa direzione vanno le novità contenute nel DDL n. 1660 attualmente in commissione giustizia al Senato e rispetto al quale è stata proclamata dall’UCPI l’astensione nazionale per le giornate del 4, 5 e 6 novembre. Tra i nuovi reati che si intende introdurre spiccano quelli separati, ma speculari, di rivolta in istituto penitenziario e rivolta in centri per il rimpatrio. Le pene sono chiaramente altissime e la soglia della punibilità è talmente anticipata da includervi persino la resistenza passiva.

Due nuove fattispecie di reato

Nonostante l’innalzamento del tasso suicidario tra le fila dei soggetti reclusi nelle carceri italiane sia in continua crescita e tale fenomeno abbia riguardato anche i CPR, seppur in misura minore, la risposta del legislatore è tentare di introdurre due nuove fattispecie di reato, non necessarie perché eventuali condotte delittuose sarebbero già oggi sanzionate dalle norme vigenti. Come se la lunga scia di suicidi non sia espressione di un malessere che nasce dalle condizioni indegne in cui i detenuti/trattenuti sono costretti a vivere. Come se non si sapesse che i CPR sono luoghi di privazione della libertà personale, ben peggiori degli istituti penitenziari, poiché il trattenuto a differenza del detenuto non è tutelato dal sistema di garanzie disegnato dall’Ordinamento Penitenziario, né può giovarsi del percorso trattamentale finalizzato al recupero del ristretto. Effettivamente il tempo del trattenuto è per legge tempo perso, quello del detenuto lo è spesso nei fatti, nonostante la legge e la costituzione dicano altro. Tuttavia il legislatore vorrebbe equipararli per lo meno con l’introduzione dei reati gemelli di rivolta in istituto di pena e in centri di trattenimento, in modo tale che almeno sotto il profilo penale siano trattati nella medesima maniera.

Le vite di scarto

La risposta dello Stato ai nuovi poveri, emarginati ed espulsi dal ciclo produttivo, o coloro i quali giungono sulle barche della disperazione sulle nostre coste, in fuga da fame, guerra e regimi violenti ed irrispettosi dei diritti umani, è il diritto penale o, addirittura, l’esercizio del potere punitivo senza il sistema di guarentigie penali. Pare essere tramontato il progetto democratico cristallizzato in Costituzione, con al centro la persona umana (art. 2 e 3 Cost.), e si assiste forse al sorgere di un nuovo Stato tecnocratico punitivo, che in nome di un malinteso efficientismo vuole lo smaltimento veloce di tutti gli scarti sociali, anzi meglio delle “vite di scarto”.

Orlando Sapia

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