Mi piace pensare che l’Autodifesa di Caino da parte di Andrea Camilleri, resa pubblica – che coincidenza! – nei giorni in cui ricorre il trentennale dalla morte di un altro grande siciliano, Leonardo Sciascia, sia anche una sorta di conversione del padre nobile dell’Antimafia nel segno e nel senso che lo scrittore di Racalmuto invocava quale deterrente al terrore mafioso, cioè l’alternativa del Diritto e dei Diritti Umani contro la terribilità dei processi e delle pene speciali. «La mafia si combatte non con la tensione delle sirene, dei cortei e della terribilità. La mafia si combatte col diritto», scriveva Sciascia negli anni più bui della guerra scatenata dalla mafia, indicando la via maestra per combatterla e sconfiggerla. Insieme a Marco Pannella e al Partito Radicale, Sciascia ha continuato a difendere i basilari principi costituzionali e democratici, i valori di giustizia e libertà su cui si fonda lo Stato; non li ha mai sacrificati alla ragion di Stato, sottomessi a una logica dell’emergenza senza fine, che alimenta e si alimenta sempre di norme, procedimenti e regimi speciali.

L’Autodifesa di Caino da parte di Camilleri è clamorosa perché arriva, pur in finale di partita, da chi nella sua vita si è accompagnato a quei militanti della giustizia senza libertà che sono stati i girotondini, impegnati sempre a fare giustizia più che a rendere giustizia, a porre marchi di infamia sugli autori del male più che sul male stesso. Dal Caino di Camilleri emerge invece una parabola edificante dell’antica e terribile vicenda del fratello che uccide il fratello, vicenda dall’esito imprevedibile e, a ben vedere, molto più civile e significativo, rispetto alla storia moderna dei delitti e delle pene, alla civiltà contemporanea delle soluzioni patibolari che sono ancora in voga: non solo il carcere, che è tempo e luogo privativo della libertà, ma addirittura il “carcere duro” del 41 bis e, nel carcere duro, quello ancora più duro, che sono le aree riservate del 41 bis, privative non solo della libertà, ma anche della vita, della dignità e della sicurezza della persona e, a ben vedere, anche della umanità della nostra società. Il Caino difeso da Camilleri, da radice del male diviene artefice di riscatto: elevato al rango umano, Caino è affrancato dalla pena di infamia che impone sul condannato un marchio che sentenzia: tu sei il tuo delitto, tu non cambierai mai. Fosse uscito questo Monologo nei giorni della sentenza della Corte Costituzionale contro il “fine pena mai”, sarebbe stato il civile controcanto al coro giustizialista dei fautori della pena infinita per i condannati a essere “mafiosi per sempre”. Riportando il famoso passo della Genesi al suo senso originario, Camilleri ci richiama al principio della Storia e dell’umanità, quando eravamo più civili, più umani, più giusti di oggi. Con l’Autodifesa di Caino ritorniamo all’Antico Testamento, alla letteralità del passo della Genesi: «il Signore pose su Caino un segno perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato». «Nessuno tocchi Caino», scrive Camilleri nel suo Monologo. Nessun marchio d’infamia, nessuna pena, nessun patibolo, nessuna violenza, nessuna sofferenza. L’errante è “condannato” ad errare, ad andare ramingo per terre sconosciute e, per ciò, divenne “costruttore di città”. Nessuna prigione, non pene alternative, ma alternative alla pena. Caino-costruttore-di-città, questa fu l’alternativa, attualissima, concreta.

Abbiamo bisogno – diceva Aldo Moro – «non tanto di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale». Dopo l’abolizione della pena di morte e della pena fino alla morte, è questa la nuova frontiera, il senso della lotta di “Nessuno tocchi Caino”. Occorre rompere quella “catena perpetua”, l’ergastolo mentale che ci costringe a pensare ancora che alla violenza e al dolore del delitto debbano necessariamente corrispondere una violenza e un dolore eguali e contrari, quelli inflitti dal giudizio e dal castigo propri del diritto penale. La risposta al male, alla violenza, all’odio, al dolore, sta nel bene, nella nonviolenza, nell’amore, nel piacere di riparare quel che si è rotto, riconciliare quel che si è separato, unire quel che si è diviso, ricucire quel che si è strappato, ricostruire quel che si è distrutto… «Allora capii che finalmente ero arrivato alla fine del mio lungo errare e lì, proprio attorno a quel cerchio di pietre, avrei raccolto la prima comunità di umani e che sempre lì avrei fatto sorgere la città che nel lungo peregrinare m’ero ripromesso di costruire». Questa è la parabola felice della storia di Caino, come la racconta Andrea Camilleri.

Sergio D'Elia