Perché se ne inquadri il significato devono essere osservate da lontano le manifestazioni dei giorni scorsi in Israele. Da lontano nel tempo e nello spazio. Non aiuta a capirne nulla il buffo sussiego engagé del reporter che vi si butta in mezzo con il suo bagaglio di provetto incompetente, riproponendone qualche slogan disparato e immortalandone le scene piene di idranti contro i parenti delle vittime e dense di misfatti della polizia equestre. Questo, tutt’al più, serve a confezionare la cronaca del giornalismo più provinciale e disinformato d’Europa (è il nostro), il quale ha trasformato quelle proteste in una specie di 25 aprile che finalmente si squaderna in faccia al governo fascista, il manipolo di oltranzisti colpevole di aver portato il paese in guerra fregandosene della sorte degli ostaggi.

Il duplice dramma di Israele

Osservare dalla dovuta distanza quella folla adunata sotto alle bandiere con la Stella di David – quelle che nelle strade e nelle piazze e nelle università fuori da Israele non possono comparire, se non per essere bruciate e ricoperte di sputi – significa ricomprendere nella vista il dramma che da undici mesi assedia Israele e rende tanto complicata la campagna di Gaza. E il dramma sta nella duplice e conflittuale esigenza di recuperare gli ostaggi e di impedire che ne siano fatti altri quando (cioè in qualsiasi momento) i miliziani e i civili palestinesi che hanno compiuto i massacri del 7 ottobre fossero nuovamente nella possibilità di compierne. Il che si ottiene se si distruggono le loro capacità militari e offensive, non altrimenti. Sopportare per mesi il peso di questo ineludibile conflitto – specie da parte dei familiari dei rapiti e dei soldati impegnati a combattere per recuperarli, e per neutralizzare quelli che li tengono sequestrati e ne ammazzano un po’ alla volta – è evidentemente molto difficile.

Ed è facile, ma tragicamente fuorviante, credere che la fuoriuscita salvifica da quel conflitto possa risiedere in qualche concessione sul cosiddetto corridoio Filadelfia, il nastro di terra sul confine tra Israele ed Egitto che, dopo quasi un anno, emerge come il bastione delle possibilità di pace contro il mare della guerra. Naturalmente, con Israele incaparbito senza motivo a non mollarlo e con i capi di Hamas, invece, disponibili pressoché a qualsiasi riconoscimento: salvo essere costretti, per effetto delle chiusure israeliane, a sparare nella testa a sei ostaggi che inammissibilmente, altrimenti, sarebbero stati liberati al di fuori di un accordo capace di riconoscere i diritti acquisiti dei rapitori.

Il “governo della morte” e l’operazione Rafah

Le manifestazioni a Tel Aviv e nelle altre città di Israele, immediatamente rubricate – nel suadente ripescaggio di uno slogan di un esponente dell’opposizione – come la rivolta della società democratica contro il “governo della morte”, dovrebbero poi essere osservate andando indietro nel tempo. A quando Israele, mesi e mesi fa, pianificava l’entrata a Rafah mentre Joe Biden e Kamala Harris vi disegnavano la propria linea rossa, minacciando una specie di embargo sulla scorta di una frase attribuita in modo contraffattorio al vecchio presidente: il quale non disse, ma gli si attribuì di aver detto, che le armi americane a Israele erano “usate per uccidere i civili”. Si sarebbero accorti poco dopo, il presidente e la sua vice, che Hamas avrebbe cominciato a dare segni di cedimento e disponibilità esattamente quando l’operazione su Rafah cominciava a dispiegarsi, con ancora nell’aria il suono della requisitoria di un avvocato del Sud Africa nel processo all’Aia: “Se cade Rafah”, disse, “cade Gaza”.

Le pressioni del grande alleato

Lo strazio e la rabbia dei manifestanti israeliani erano troppo forti perché in loro dimorasse ancora la memoria di quelle settimane, quando il grande alleato esercitava pressioni su Israele, non su Hamas, per la soluzione di un conflitto in un quadro recessivo delle forze israeliane che non solo avrebbe consolidato quelle nemiche, ma non avrebbe offerto nessuna garanzia circa il rilascio degli ostaggi. Perché anche questo va ricordato: le soluzioni di tregua gradita via via rifiutate da Hamas prevedevano il rilascio “a blocchi” degli ostaggi, in una contabilità di cui Hamas non poteva e non voleva dare conto per due motivi entrambi nobilissimi: e cioè per non svelare quanti già ne aveva assassinati né quanti ancora avrebbe avuto libertà di assassinarne nello stillicidio della sua politica terroristica.

Ricordiamo infine dove le belve di Hamas hanno ammazzato con un colpo alla nuca Hersh Goldberg e gli altri cinque. Li hanno ammazzati in un tunnel di Rafah, lì dove l’esercito israeliano era istigato per mesi a non entrare per tante ragioni, ma davvero non per il rischio che fosse messa a repentaglio l’incolumità degli ostaggi. Dei quali i comodi commentatori delle manifestazioni anti-Netanyahu, un’altra volta, mostrano di curarsi quando si tratta di attribuirne la fine a chi non è riuscito a liberarli: non a chi li ha uccisi.