Le logiche di parte allontanano il cambiamento
Non aspettiamoci dalle forze che sostengono il governo Draghi le riforme istituzionali
Si può sperare che dall’attuale clima di unità nazionale tra le forze politiche che sostengono il governo Draghi possano scaturire le riforme istituzionali che il Paese attende da tempo? Ne dubito. Non perché tale clima non ne sia necessario presupposto, anzi. Se si guarda ai precedenti numerosi tentativi di riforma, essi sono tutti falliti perché frutto di iniziative che, anche quando inizialmente condivise, sono poi diventate di parte o così sono state percepite, per sciagurato calcolo politico ora dei proponenti, ora degli avversari.
Come dimenticare l’occasione storica dell’accordo raggiunto nella bicamerale D’Alema, poi fatto fallire da Berlusconi? O la riforma dello stesso centrodestra del 2005, imposta con la forza dei numeri? O la stessa riforma Renzi-Boschi che ha perso per strada l’iniziale ampio sostegno parlamentare per vicende estranee al merito della riforma e poi respinta a causa soprattutto della marcata politicizzazione con cui è stata presentata agli elettori? Da questo punto di vista, quindi, il recupero di un clima di dialogo tra le forze politiche costituirebbe certamente il miglior viatico per riforme istituzionali condivise che possano raggiungere in Parlamento quella maggioranza dei due terzi che permetterebbe di non essere sottoposte nemmeno a referendum costituzionale. Ma siamo certi che sia oro tutto ciò che luccica?
Innanzi tutto è tutto da verificare che l’attuale maggioranza parlamentare – creatasi, è bene non dimenticare, principalmente per la gestione dei fondi europei destinati alla ripresa economico-sociale – possa mantenersi tale quando si tratterà di affrontare un tema storicamente divisivo quale quello delle riforme istituzionali. Del resto, a distanza di sei mesi dall’approvazione della riduzione del numero dei parlamentari, le promesse riforme integrative e attuative sono al palo. Financo una riforma costituzionale che sembrava pacifica e condivisa, come la riduzione da 25 a 18 degli anni richiesti per votare al Senato, è in standby da ben cinque mesi, nonostante per l’art. 99.2 il presidente della Camera possa concedere solo un rinvio “a breve termine”. Così come in standby sono le riforme regolamentari necessarie perché le prossime Camere, e specie il Senato, possano funzionare con un numero ridotto di componenti.
Tale stallo non mi pare possa semplicemente imputarsi all’attuale emergenza sanitaria o all’assestamento del nuovo scenario politico. Esso viene da lontano e, temo, si proietti lontano. Sono quasi quarant’anni, e cioè dalla Commissione Bozzi del 1982, che nel nostro Paese si discute di riforme. I principali nodi da sciogliere per conferire al nostro sistema quella stabilità e capacità decisionale invece presenti nelle altre principali democrazie europee – bicameralismo paritario, ruolo del presidente del Consiglio, procedure parlamentari, poteri dell’opposizione – sono oggetto di studi di cui ormai le biblioteche straboccano. Se, a fronte di un simile approfondimento teorico, il risultato sono proposte tutto sommato specifiche e marginali (come quella sul numero dei delegati regionali per l’elezione del Capo dello Stato o, come detto, sull’elettorato attivo e passivo del Senato), ciò vuol dire che sulle grandi riforme di cui necessita il sistema politico-istituzionale vi è ancora una profonda spaccatura tra le forze politiche, riflesso a sua volta della incapacità loro e della loro classe politico-parlamentare – in questo come in altri campi – di avere una visione di sistema capace di andare oltre l’immediato tornaconto politico.
Il che peraltro spiega il motivo per cui il tema da sempre preferito è quello della legge elettorale, alla spasmodica ricerca di soluzioni che possano, in caso di vento favorevole, massimizzare la propria vittoria o, in caso di vento contrario, minimizzare la propria sconfitta, magari facendo sì che la modesta percentuale di seggi ottenuta diventi decisiva per la formazione del governo. Se poi a tutto questo aggiungiamo che toccare il sistema politico-istituzionale è sempre operazione delicata, in cui al rafforzamento dei “pesi” deve corrispondere un pari rafforzamento dei “contrappesi”, e che perciò richiede un sincero spirito democratico, le perplessità delle attuali forze politiche di essere all’altezza di tale compito aumentano, considerato il modo muscolare e conflittuale con cui hanno in passato interpretato il bipolarismo e lo svilimento e la marginalizzazione cui, come maggioranza di governo, hanno relegato il ruolo del Parlamento, a colpi di questioni di fiducia su maxi-emendamenti in sede di conversione di decreti legge.
Lo spirito costituente, spesso impropriamente evocato, non nasce da un giorno all’altro, né può basarsi su convergenze politiche la cui stabilità e profondità è ancora tutta da verificare. Come ci insegna l’esperienza dell’Assemblea costituente, esso nasce dalla condivisione di un’etica repubblicana che trae linfa vitale non dal desiderio di “pieni poteri” ma dalla tutela dei principi e diritti costituzionali (invece messi più o meno apertamente in discussione) e dal rispetto reciproco tra le forze politiche, nella convinzione che il prestigio delle istituzioni sia dovere comune ed il loro buon funzionamento interesse di tutti. Spiace scriverlo, ma una rondine non fa primavera.
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