Il nuovo dpcm è quello che prende atto della seconda ondata pandemica e tenta di contenerne i disastrosi effetti sanitari ed economici. È innegabile che si navighi a vista. Un rilievo questo che, solo in parte, contiene anche una censura per la grave sensazione di improvvisazione e di indecisione che si è insinuata tra strati sempre più cospicui della popolazione. Un esercito di immunologhi, virologhi, infettivologhi non è riuscito a dare al Governo le coordinate precise entro cui muoversi. Non stiamo parlando della previsione circa il riacutizzarsi della pandemia, per quella non c’è modello previsionale che tenga perché molto dipende dal comportamento dei consociati. Ci si riferisce, piuttosto, alla previsione delle soglie di allarme oltre le quali le misure sarebbero dovute andare in automatico, senza troppe discussioni, senza moti di piazza, senza estenuanti trattative nel patchwork che è la maggioranza parlamentare che sostiene l’Esecutivo. Questa volta sembra la volta buona.

Sembra che il Governo abbia finalmente compreso che non si possono reggere le sorti di un paese fragile come l’Italia con l’occhio rivolto ora per ora ai rulli di tamburo delle cifre dei tamponi e dei loro risultati. E soprattutto sembra si sia chiarito che, fino alla distribuzione di un vaccino affidabile e testato (ossia non prima della fine del 2021), sarà solo un succedersi di aperture e di chiusure, in un contesto sfibrante e defatigante per la popolazione. A questo punto, però, la questione si complica e non di poco. Passi che Palazzo Chigi o il ministro della salute – durante questi lunghi nove mesi che ci separano dalla dichiarazione dello stato d’emergenza del 31 gennaio – abbiano fatto un uso a maglie larghe dello strumento del decreto presidenziale o di quello ministeriale per regolamentare gli aspetti più minuti della vita dei cittadini e delle imprese. Passi che si è agito con ampia discrezionalità sull’esercizio di libertà fondamentali (dalla libertà di istruzione a quella di movimento, con incursioni non secondarie sulla libertà di riunione, di circolazione e di religione). Ma adesso che sembra giunta l’ora di una programmazione più razionale e complessiva dei lockdown lo strumento del dpcm o delle ordinanze ministeriali appare, e di parecchio, fuori dal perimetro costituzionale e dalle ragioni che regolano la gestione delle emergenze.

È un impiccio da spiegare cercando di non smarrirsi in sofismi e alambicchi giuridici, visto anche il silenzio assordante dei costituzionalisti italiani che – con rare e preziose eccezioni – stanno abbondantemente trascurando i doveri connessi al proprio status universitario; la libertà di insegnamento tutelata dalla Costituzione non si dovrebbe risolvere in docenze, esami, organizzazione di concorsi e qualche pubblicazione, ma comporterebbe anche il dovere di pubbliche prese di posizione a vantaggio dei cittadini che pagano il loro stipendio. Ma si sa, questo è il paese dove solo 12 professori universitari su 1.251 rifiutarono di prestare il giuramento di «essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista» e troppo volte tra i chierici l’omologazione al potere condiziona la paressia, ossia il dovere di dire la verità. Per cui, sia pure a spanne e con inevitabili approssimazioni, qualcosa bisognerà pur dirla.

Il potere di ordinanza che la legge affida al presidente del Consiglio o, in materia sanitaria, al ministro della Salute è strettamente legato alla sussistenza di condizioni contingenti di urgenza e di necessità. Si tratta di atti amministrativi straordinari destinati a regolamentare situazioni specifiche, temporanee per definizione e non per forza delimitate territorialmente. Dovrebbe apparire chiaro che ciò che differenzia questi decreti amministrativi dalla legge è, in linea teorica, che la norma legislativa ha portata generale e contiene la regolamentazione in via astratta di una serie indeterminata di situazioni. La legge è, quasi sempre, una disposizione volta a disciplinare situazioni che verranno a verificarsi, tant’è che la sua retroattività è guardata con estremo sospetto e circospezione.

Ora, assemblare un provvedimento del presidente del Consiglio, ossia un atto amministrativo, che contenga tutta la disciplina delle situazioni future che avranno a verificarsi nelle varie regioni o nelle singole città equivale a realizzare un atto normativo generale non consentito dall’ordinamento. Può certo Palazzo Chigi stabilire la zona rossa in provincia di Bergamo o anche proclamare a reti unificate – come è accaduto il 9 marzo – che «da domani tutta l’Italia è zona rossa». Ciò che non può dirsi consentito è che un provvedimento, per sua natura precario e temporaneo, regoli la vita dei cittadini in teoria per molti mesi. L’opzione è giusta, l’abbiamo detto, ma lo strumento scelto appare profondamente sbagliato perché crea un pericoloso precedente nella prassi costituzionale del paese e, di fatto, sovverte la gerarchia delle fonti normative. Il dpcm non può pretendere di regolare in via preventiva e generale porzioni rilevanti della vita dei cittadini, soprattutto se ciò avviene fuori da uno stretto, ossia minimo, orizzonte temporale.

La previsione di blocchi progressivi per fasi dovrebbe essere necessariamente affidata a un atto legislativo di competenza parlamentare. Si sono sfornati una raffica di decreti-legge per fronteggiare l’emergenza pandemica, non sarà certo un altro decreto a causare danni o irreparabili ritardi. Sappiano i cittadini cosa accadrà se la situazione sanitaria dovesse peggiorare e se i comportamenti non saranno adeguati, non perché a dare l’allarme è un atto governativo concitatamente patteggiato nelle stanze di Palazzo Chigi, ma perché le Camere, i propri rappresentanti eletti, hanno compiutamente vagliato e approvato un siffatto, doloroso percorso. Recuperare la centralità del Parlamento, anche dopo l’esito referendario e i gioiosi proclami antiassembleari che l’hanno accompagnato, è un obiettivo che dovrebbe coinvolgere tutte le forze politiche e dovrebbe stare in cima alle preoccupazioni dei cittadini. Il primato della legge è la solo garanzia del primato delle libertà.