Tra i segnali di discontinuità che ci si attende dal governo Draghi rispetto al precedente c’è sicuramente quello riguardante un più rispettoso rapporto con il Parlamento, specie sul ricorso alle fonti normative per gestire la pandemia. Tutti noi ricordiamo, specie nella prima fase dell’emergenza, il profluvio di Dpcm emanati, scritti talora in maniera così ambigua e sciatta da far insolitamente concludere a un giurista autorevole quanto moderato come Sabino Cassese che i loro autori avrebbero meritato la colonia penale in Siberia. Così come non possiamo dimenticare le Faq cui il Governo faceva ricorso per chiarire i dubbi interpretativi sollevati dalle notturne dichiarazioni televisive del presidente del Consiglio le quali, a loro volta, avrebbero dovuto chiarire il contenuto di Dpcm ancora non emanati sulla base di decreti legge ancora non convertiti. Una vera babele linguistico-normativa fonte di mille dubbi per noi poveri cittadini!

Da allora la situazione è certamente migliorata. La catena di produzione normativa è rimasta inalterata, perché i Dpcm continuano a essere emanati in base a quanto previsto da decreti legge. Il che dimostra che, per quante perplessità possano suscitare, essi sono stati strumenti indispensabili per intervenire in modo tempestivo e flessibile nella gestione di una emergenza pandemica, com’è noto, purtroppo imprevedibile e in continua evoluzione. Di contro, tali atti, anche perché sottratti per loro natura al controllo del presidente della Repubblica, dal maggio dell’anno scorso sono stati assoggettati al parere preventivo (o, in caso di urgenza, successivo) delle Camere così da permettere loro di formulare eventuali indirizzi. La parlamentarizzazione dei Dpcm non solo ha costretto il Governo a motivare pubblicamente le ragioni delle sue scelte, togliendole dalle oscurità dei comitati tecnico-scientifici, consentendo in particolare alle opposizioni di poter svolgere la loro essenziale funzione di controllo, ma ha anche permesso una migliore interlocuzione tra l’esecutivo e la sua maggioranza, la quale ha potuto formulare osservazioni e rilievi certamente utili per evitare le sciatterie e i dubbi interpretativi cui facevo cenno all’inizio.

Infine – ed è la tendenza più recente – i Dpcm hanno assunto una cadenza regolare (gli ultimi quattro sono stati emanati il 3 novembre, 3 dicembre, 14 gennaio e 2 marzo), sono stati tutti sottoposti al previo controllo parlamentare e – soprattutto – contengono disposizioni sempre più di portata generale, anziché dettagliata. Essi, infatti, prevedono prevalentemente le misure da applicare nelle diverse zone (rossa, arancione, gialla, bianca) che poi vengono specificate dalle ordinanze del ministro della Salute, integrate da fonti non legislative come i protocolli. Una volta però assunta dimensione generale e astratta, i Dpcm perdono la loro originaria specifica funzione di fonte di dettaglio, rivelandosi inutili se non un modo pericoloso di aggirare le camere. Per questo sarebbe ora che non vi si facesse più ricorso. È proprio in questa direzione che vanno i pareri approvati giovedì dal Comitato per la legislazione e dal Comitato pareri della Commissione affari costituzionali della Camera con i quali si invita il Governo a superare il sistema dei Dpcm, inserendo le disposizioni generali nei decreti legge, soggetti al controllo preventivo del presidente della Repubblica e successivo del Parlamento, e lasciando quelle specifiche nelle ordinanze ministeriali e nei protocolli.

C’è però un ulteriore rischio da evitare, e cioè che alla rinuncia da parte del governo dell’uso dei Dpcm corrisponda un ancor più ampio e frequente ricorso ai decreti legge. Dallo scorso dicembre in tema di pandemia ne sono stati emanati ben sei e altri lo sono stati in altre materie. Che il governo abusi da tempo della decretazione d’urgenza non è certo una novità. Lo è invece questo continuo affastellarsi di decreti legge che ingolfano come mai i lavori delle camere, impedendone loro l’effettivo esame entro i 60 giorni previsti in Costituzione per evitarne la decadenza. Da qui il ricorso all’ennesimo stratagemma: l’inserimento tramite emendamento dei disegni di legge di conversione dei decreti legge all’interno di altri eguali disegni di legge. L’effetto è quello dei cosiddetti decreti-matrioska che inglobano al loro interno la conversione di altri decreti legge. Una pratica causa di gravi problemi di coordinamento normativo, e per questo da tempo censurata dalla Corte costituzionale (sentenza n. 58/2018), e che in questi primi mesi dell’anno si sta pericolosamente allargando.

La legge di conversione dell’ultimo decreto legge “milleproroghe” (n. 183/2020) assorbiva infatti ben tre decreti legge, di cui uno (182/2020), dovuto emanare per sanare un errore della legge di bilancio e un altro (7/2021) emanato per emendare a sua volta un precedente decreto legge (3/2021). Questo modo disordinato di legiferare solleva gravi problemi istituzionali, giacché di fatto concentra in una sola camera il potere di emendamento, dato che all’altra, per evitare la decadenza del decreto-legge, resta solo il tempo per approvarlo. Inoltre è anche motivo di incertezza per gli operatori del diritto e, più in generale, per tutti i cittadini i quali stentano a comprendere quali siano le disposizioni volta per volta vigenti, con grave danno per la certezza del diritto da cui anche dipende la crescita economica del paese.

Tale situazione patologica deve essere riportata a normalità, riducendo tale proliferazione di decreti legge e ridando alle camere il tempo di esaminare e, se del caso, emendare i decreti legge tanto più quando inerenti alle conseguenze dell’emergenza sanitaria. Spetta all’ampia maggioranza a sostegno dell’attuale governo scegliere se preferire l’interlocuzione per così dire per vie interne con il Governo, emarginando il Parlamento, oppure al contrario esaltarne la centralità come sede di aperto confronto. Una discontinuità quindi che potrebbe anche costituire il miglior viatico per riprendere il filo interrotto delle riforme istituzionali e parlamentari, peraltro imposte dall’entrata in vigore nella prossima legislatura della riduzione del numero di deputati e senatori.