“Personalmente non conosco intercettazioni inutili”, ha affermato in una nota indirizzata al ministro della Giustizia il procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo. “Si tratta di temi – prosegue Melillo – dei quali ho parlato già intorno a un tavolo di lavoro voluto dalla presidenza de Consiglio dei ministri. Da un lato su questi temi c’è bisogno di maggiori garanzie e dall’altro lato di maggiore efficienza, ma vorrei che fosse chiaro che si tratta di accrescere insieme garanzie ed efficienza senza alcun arretramento sul versante delle intercettazioni”.

Melillo ha poi specificato che “vi sono attività di indagini oltremodo delicate e invasive che sono già proprie delle intercettazioni e nel contempo c’è un deficit nella nostra capacità di penetrare nelle reti digitali che sono ambienti ormai consueti di grandi e piccole reti criminali. C’è bisogno di tutti per fare questo salto sottraendo una materia così delicata sia ai pericoli dei furori polemici sia alle semplificazioni grossolane”. Parole condivisibili che devono, però, fare i conti che la realtà. Tanto per fare un esempio, la scorsa settimana è stato chiamato come testimone al tribunale di Perugia, nel processo nei confronti dell’allora Pm romano Stefano Fava, il colonnello della guardia finanza Gerardo Mastrodomenico.

Fava è imputato per la campagna mediatica, a maggio del 2019, ai danni dell’ex procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone e dell’aggiunto Paolo Ielo che sarebbe stata realizzata facendo pubblicare alcuni articoli, circostanza già smentita dagli stessi giornalisti, su presunti conflitti d’interesse dei due magistrati.

Mastrodomenico, ora comandante provinciale della guardia di finanza di Messina, all’epoca dei fatti era il comandante del GICO di Roma che ha eseguito le intercettazioni, a mezzo trojan, delegate dalla Procura di Perugia e la cui illecita divulgazione determinò un terremoto al Csm con le dimissioni di ben cinque consiglieri. Non senza imbarazzo, Mastrodomenico ha dovuto confessare di non sapere nulla dell’utilizzo del trojan e che tutto, nella sostanza, era delegato alla società appaltatrice del virus spia. Alle domande dell’avvocato Luigi Panella, difensore di Fava e uno dei massimi esperti del trojan che ha portato nei mesi scorsi la questione fino alla Corte Costituzionale quale difensore dell’ex parlamentare Cosimo Ferri, ha ammesso che, a maggio del 2019, il GICO da egli comandato aveva usato il trojan soltanto una volta. “Non avevamo – ha dichiarato Mastrodomenico – alcuna significativa esperienza nell’uso di questo strumento investigativo”.

Rispondendo a degli aspetti specifici chiesti dal difensore, Mastrodomenico ha dichiarato che i suoi uomini avevano scritto a fianco ad alcune conversazioni “molto importante” anche se gli interlocutori non furono identificati, non fornendo al contempo spiegazioni sul mancato deposito di alcune conversazioni. Il presidente del collegio, Alberto Avenoso, è allora intervenuto esclamando: “Non credo che il teste abbia le cognizioni tecniche per rispondere”. E Mastrodomenico: “È esattamente così… il dato come lo restituiva la macchina noi lo abbiamo riversato all’autorità giudiziaria”. Panella ha poi chiesto perché numerosi progressivi avessero una durata anche di molto inferiore a quella prevista dal software e perché i file delle programmazioni non avessero un ordine cronologico, come tutti i documenti elaborati dai computer.

Ma anche per tali aspetti il teste ha fatto scena muta sicché Avenoso ha dovuto ancora una volta prendere atto che Mastrodomenico “non ha le cognizioni tecniche”. Ad ulteriori domande del difensore, Mastrodomenico ha quindi ammesso che su questi aspetti dell’uso del trojan “nessuno operatore di Pg del Gico è in grado di dare spiegazioni”. L’alto ufficiale, prima essere congedato dal tribunale, non ha neppure risposto alla osservazione del difensore in ordine a quanto aveva dichiarato il procuratore di Perugia Raffaele Cantone davanti alla Commissione Giustizia circa la sprogrammazione, ad opera del Gico, della registrazione dell’ormai famosa cena al ristorante da Mamma Angelina che vedeva la presenza di Pignatone. A questa domanda Mastrodomenico ha risposto alterandosi “quello che ha detto Cantone chiedetelo a Cantone”.

Vanno bene, dunque, le considerazioni del procuratore nazionale antimafia ma è quanto mai urgente una riflessione sulla preparazione del personale di polizia giudiziaria, a cui si delegano delicate indagini, ad utilizzare tali strumenti per le intercettazioni. Senza dimenticare se sia opportuno introdurre norme, una volta per tutte, che impongano il divieto di “subappaltare” le indagini a soggetti privati, nel caso specifico i fornitori dei virus spia. Utilizzabili da qualche anno per un catalogo sconfinato di reati.