Non tutti i dittatori sono uguali. Prendiamo il caso del Venezuela, dove alla leader dell’opposizione Maria Corina Machado è stato appena proibito di partecipare alle elezioni. Un paese travolto dall’ondata populista degli anni Novanta, dove prese il potere un militare ex golpista, Hugo Chavez, seguito (dopo la morte) da Nicolas Maduro. Il loro regime si è basato sul controllo delle materie prime, la distruzione dei media liberali, la repressione degli oppositori. Ha provocato una delle peggiori crisi umanitarie del XXI secolo. Attualmente, sono in carcere almeno 268 dissidenti.
Quelli che hanno lasciato il paese, una cifra in aggiornamento continuo, sono oltre 7.720.000, con persone morte in fuga, vite distrutte, famiglie spezzate, abusi sessuali. Solo la Siria è paragonabile per la dimensione dell’emigrazione forzata. Inoltre, anche se su terreni diversi, la repressione dei dissidenti o la liquidazione delle libertà sono temi che toccano decine di paesi, da Hong Kong al Nicaragua, dalla Russia a Cuba. Nonostante questo, non sono questioni all’ordine del giorno militante o mediatico. Come, del resto, per la tragedia vissuta dalle donne in buona parte del mondo.

Neppure nel loro caso sono tutte eguali. Il capo dei talebani, il mullah Hibatullah Akhundzada, ha appena annunciato la ripresa delle lapidazioni pubbliche per le donne. L’ultima tappa di un processo iniziato con la riconquista di Kabul, che considera le donne oggetti per la soddisfazione sessuale e la gestione familiare degli uomini. Sarebbe troppo lungo l’elenco dei divieti che il regime ha posto: dalla musica alle fotografie, al semplice uso dell’abbigliamento, fino all’imposizione di un codice talebano con tutte le punizioni conseguenti. Compresa la pratica del matrimonio forzato delle bambine e delle donne, che ha di nuovo assunto dimensioni imponenti.

Non si tratta di un caso unico. A seconda del contesto politico, statuale e ideologico, le donne sono la prima linea della repressione e della disumanizzazione, dal controllo sociale dell’Iran alle oppressioni in paesi africani fino alle azioni di gruppi terroristici, Hamas compreso. Nonostante questo, la brutalizzazione delle donne afghane, non ha riscontrato nessuna mobilitazione militante paragonabile, per esempio, alle stesse manifestazioni del 2001, contro l’intervento che pose fine al primo regime talebano.
Non si limita però a questo l’agenda dei diritti globali, perché al tema delle libertà democratiche e femminili si aggiunge quello delle guerre para imperiali, accompagnate dalla stessa scarsa attenzione militante. Neppure queste sono tutte eguali. La campagna democida russa in Ucraina è solo l’ultima tappa, in questo caso su larga scala, di una politica neocoloniale iniziata con le campagne in Cecenia, Georgia, Crimea, Donbass e Siria. Con una declinazione globale basata su più o meno efficaci politiche di infiltrazione-disinformazione. Inoltre, negli ultimi dieci anni altre politiche militari-imperiali sono in campo. Tra i casi più importanti ci sono l’Iran e Cuba.

Il regime degli Ayatollah è intervenuto con azioni e forza condizionando la politica dell’Irak e contribuendo a salvare l’esistenza della dittatura di Assad in Siria. Il numero di organizzazioni paramilitari e terroristiche ispirate o sostenute degli irakeni si spreca, dagli Houti a Hezbollah, fino ovviamente ad Hamas. Stesso discorso vale per la dittatura cubana. Questa eredita la vocazione militar-interventista di Fidel Castro, che aveva portato i suoi soldati e consiglieri in Algeria, Etiopia, Angola e altri paesi, sostenendo le più sanguinose guerriglie latino-americane. Ora sarebbe impossibile immaginare la forza del regime venezuelano senza la “invasion consentida”, il potente intervento militare e di intelligence cubano o il sostegno di una forte narco guerriglia come l’ELN colombiano.
Insomma, dittature, diritti delle donne e campagne militari-imperiali non sono nell’agenda di settori militanti intellettuali o attori comunicativi. Ovviamente, non va dimenticato che tanti nella società liberale sono impegnati su questi grandi temi. Solo per fare qualche esempio, basta pensare all’azione del premio Nobel Mario Vargas Llosa contro le dittature latino-americane, ai rapporti di Amnesty International sulle condizioni delle donne in Afghanistan, alla mobilitazione di quasi tutti i governi occidentali contro l’invasione russa dell’Ucraina.

Nonostante questo, non sono al centro dell’agenda dei settori radicali del mondo intellettuale né suscitano l’entusiasmo dei talk show televisivi. Entrambi così importanti e potenti nella formazione delle narrazioni e nella guerra di idee. In questo spazio, altri discorsi riescono a condizionare, e con una certa potenza, il discorso pubblico. Innanzitutto, l’antioccidentalismo come status. Si tratta di una visione del ruolo degli USA e in genere del mondo democratico, intesa come stereotipizzazione di responsabilità reali o immaginarie in crisi internazionali o eventi collegati. Una dinamica efficace, quando può offrire una risposta rapida a esigenze identitarie o mobilitanti, ma del tutto inutile quando l’attore protagonista, dalla Russia al Venezuela, si muove al di fuori di questo apparato concettuale radicale o populista.
In secondo luogo, c’è la versione dogmatica e aggressiva del pacifismo, quella ideologica. Si basa sulla contrapposizione radicale al pacifismo morale, proprio delle visioni liberali. Questo considera indissolubile la relazione tra pace e libertà, di uomini e di stati. Invece, il pacifismo ideologico afferma valori assoluti giudicando ugualmente coinvolti, anche se in forme diverse, aggressori e aggrediti. Offre agli stati la possibilità di disimpegnarsi e alla parte ideologica del pacifismo posizioni di supremazia morale, ma è del tutto fuorviante se si vuole legare alla questione della pace il problema della libertà e dei diritti, come si è visto nel caso dell’Ucraina o della Siria.
Infine, c’è l’uso mirato del passato per rivendicare problemi del presente. Un meccanismo abbastanza efficace e penetrante, basato su un principio selettivo che cerca nel passato torti, abusi e violenze, per rivendicare posizioni e valori nel contesto attuale. Anche in questo caso, si tratta di un meccanismo dinamico nel mondo delle istituzioni intellettuali, concentrato sulla storia delle istituzioni e della società occidentale. Proprio per questo diventa fragile e senza respiro, quando si tratta di affrontare questioni di etnia, genere e religione in realtà come l’Afghanistan o l’Iran.

Antioccidentalismo permanente, pacifismo ideologico, passatismo selettivo sono quindi attori potenti nell’agenda mediatico-intellettuale. Del tutto opposti a una società del confronto democratico che, per esempio, può criticare la politica di Netanyahu senza giustificare Hamas o difendere l’Europa contrastando i veti di Orbán. Una realtà che, paradossalmente, ripropone la forza e la necessità del sistema di valori della democrazia del XXI secolo: l’universalismo dei diritti politici e sociali; la questione globale della libertà e della difesa delle donne; il pacifismo morale come inseparabile dalle libertà di uomini e nazioni. Si tratta di una sfida potente per le nostre società, soprattutto per il mondo della cultura e della comunicazione che produce, e condiziona, la guerra delle idee.

Carmine Pinto

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