Il sistema dell'Ue
PAC, limiti e rivendicazioni. Gli elementi per orientarsi sulle proteste agricole
Per cercare di comprendere le agroproteste europee delle ultime settimane, che sommano questioni molto diverse e sono lo specchio di tensioni e mutamenti internazionali, non si può non partire dalla Politica Agricola Comune, che significa inquadrare il problema da un punto di vista paradigmatico. La PAC, varata nel 1962, ha sempre rappresentato una stretta intesa tra l’Europa e i suoi agricoltori. Fu pensata con l’obiettivo di sostenerli e tutelarli, cercando di migliorare la produttività agricola al fine di garantire un approvvigionamento stabile di alimenti a prezzi accessibili. La natura fondamentalmente sussidiata del comparto risiede nel fatto che la produttività è nettamente inferiore a quella degli altri settori economici, ma anche nella ricerca di una autosufficienza strategica di fondo. Trattandosi di una politica comune dell’Ue, essa è gestita e finanziata a livello europeo, quindi con risorse proprie del bilancio Ue. La peculiarità della PAC sta anzi nel fatto che si tratta di una delle politiche comunitarie di maggiore importanza, che fino al periodo pre-Covid impegnava addirittura il 39% del bilancio comunitario, già molto ridotto per sua natura (chiara conseguenza degli atavici problemi di mancata integrazione e volontà dei governi nazionali). Le incertezze commerciali e l’impatto ambientale dell’agricoltura giustificherebbero, nella sua costituzione e per il suo intento, il ruolo svolto dal settore pubblico. Concretamente la PAC interviene fornendo sostegno al reddito tramite pagamenti diretti, attraverso l’adozione di misure per far fronte a congiunture difficili (cali di domanda, contrazioni di prezzi), o ancora tramite misure di sviluppo rurale dedicate a specifici territori. Con il nuovo corso della PAC 2023-2027, si delinea una politica che integra le ambizioni di sostenibilità del Green Deal. Le proteste esplose nei vari paesi si scagliano, sinteticamente, verso il taglio parziale dei sussidi e l’accresciuta iper-regolamentazione europea, che si sommano ai provvedimenti nazionali di politica interna (in Italia, ad esempio, riguardanti il cambio di regime fiscale, in Germania l’esenzione sulle tasse per l’acquisto di carburante).
Una riflessione sociale
Una riflessione, che è insieme sociale, economica e politica, va fatta sul concetto stesso di sussidio. Quando piuttosto alto (specialmente se già elevato dalla sua introduzione), esso genera come conseguenza una dipendenza, risultando nei fatti un disincentivo a innovazione e creazione di valore aggiunto. Questo meccanismo ha provocato una distorsione, psicologica e culturale, nel mondo agricolo: l’innovazione, che pure c’è e potrebbe ancora fare passi da gigante (l’agricoltura è un campo in cui c’è grande ricerca e metodo scientifico), non è vista in termini positivi. L’aritmetica dei sussidi è complicata, perché è difficile da controllare. La contropartita del sussidio è il consenso, e purtroppo ciò che si è dato una volta è raro venga tolto anni dopo. Va anche detto che a questo sistema gli agricoltori non hanno alternative reali: non si decide di stare fuori dalla PAC, ma si opera in un mercato che subisce i cortocircuiti della PAC. In generale, lo sviluppo tecnologico e l’acquisizione di nuovi metodi non devono essere incasellati in un “progresso” astrattamente concepito, bensì in nome del miglioramento della qualità di vita di gran parte delle persone, dove l’innovazione è l’unica leva: la vera ecologia sta nella riduzione dei costi e nel minore spreco di risorse. Analizzando il caso italiano, che si interseca comunque con gli stessi problemi del macrosistema europeo, bisogna partire da un dato strutturale, e cioè la dimensione media dell’azienda agricola italiana, inferiore agli otto ettari. Parliamo delle imprese agricole più piccole d’Europa (solo per fare degli esempi comparativi, in Francia e Germania siamo rispettivamente sui 53 e 56 ettari). L’agricoltura nazionale non ha un problema di vendere sottocosto perché qualcuno impone prezzi troppo bassi, ma ha un problema di costi di produzione eccessivamente ingenti, frutto di un sistema produttivo nei fatti parcellizzato. Discutere di pressione della grande distribuzione o di concorrenze sleale di prodotti stranieri senza mai parlare di ipotesi di accorpamento fondiario, di aggregazione dell’offerta, di messa a fattor comune di strumenti produttivi delle aziende agricole risulta intellettualmente disonesto.
Gli agricoltori italiani nelle condizioni di competere
Manca la volontà politica e delle associazioni di categoria di andare nella direzione di rendere l’offerta più competitiva nei confronti delle controparti industriali e commerciali. Lato europeo si sono sicuramente commessi errori riguardanti la sottovalutazione di effetti e costi della transizione ecologica (da qui lo scetticismo verso la strategia del Farm to Fork), destinati a ripetersi in altri settori. Il sistema dell’Ue si basa ora su uno scambio con gli agricoltori: sussidi in cambio dei cosiddetti public goods, beni pubblici prodotti dall’impresa ma che il mercato non remunera, nel caso particolare pratiche agronomiche sostenibili. Lo scambio che chiede l’Unione (non solo agli agricoltori, ma all’industria e alla società tutta) è di fare passi avanti verso la sostenibilità ambientale, oggi in maniera più forte rispetto al passato. Se alcune scelte possono apparire miopi, allo stesso tempo non si può sintetizzare il tutto con la frase “l’Europa vuole impedirci di produrre”, come spesso si sente risuonare nel dibattito pubblico. Bisognerebbe piuttosto mettere gli agricoltori italiani ed europei nelle condizioni di competere con i produttori esteri, lasciando loro maggiore libertà di iniziativa e processo. Il settore primario è di vitale importanza ma va ripensato, in maniera efficiente e funzionale: un sussidio minimo rimane necessario, una Unione di Stati deve mantenere una propria produzione agricola interna, specie in uno scenario internazionale sempre più incerto. Allo stesso tempo deve però essere tutelata la libertà degli agricoltori, che passa per una migliore rappresentanza organizzativa e sindacale (lasciando per esempio agli addetti la possibilità di rivolgersi ad agronomi professionisti: ogni riferimento a Coldiretti è puramente casuale), fino ad arrivare alla sperimentazione di quella ingegneria genetica che superi gli evitabili vincoli microeconomici gestionali da invasivo gigante burocratico (e nano politico, s’intende).
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