Un contesto investigativo “malato”. Questa è la definizione, di certo irrituale, che il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser ha utilizzato per definire le indagini che hanno portato, “oltre ogni ragionevole dubbio”, all’ergastolo Rosa Bazzi e Olindo Romano per la strage di Erba, uno dei delitti “privati” più cruenti e spaventosi: 4 morti, tra cui un bambino, l’11 dicembre 2006.

Un caso che, clamorosamente, potrebbe riaprirsi rimettendo in moto quel processo di polarizzazione dell’opinione pubblica riportando al centro due questioni esiziali per una democrazia: come si amministra la giustizia e come il giornalismo racconta e sazia la curiosità dell’opinione pubblica per la cronaca nera. Antonino Monteleone è da anni il giornalista italiano che ha ripercorso questo contesto “malato” e lo ha fatto nei panni della “iena”, inviato di punta di uno degli esperimenti televisivi più urticanti, criticati e di successo della storia patria.

La sua lunga inchiesta iniziata nel 2018 ha portato alla luce molti di quegli elementi su cui la Procura generale di Milano ha chiesto ai colleghi di Brescia di valutare la riapertura delle indagini e l’eventualità di un processo di revisione per i coniugi Bazzi-Romano. Di tutti i casi di cronaca nera particolarmente efferati uno degli aspetti principali, il più segreto e occultato forse – al di là delle sorti dei condannati e dei familiari delle vittime – è quello che svela la connessione tra paure e desideri, quello di vendetta o di giustizia, dell’opinione pubblica.

Come viene saziata la curiosità del pubblico di fronte al sangue?
Indagare sulla strage di Erba mi ha svelato una verità spaventosa: non abbiamo la consapevolezza del rapporto che esiste tra chi fa la cronaca giudiziaria e chi somministra, di volta in volta, le informazioni.

Malata la ricostruzione del delitto, malata la sua rappresentazione sui media, vuoi dire questo?
Continuo a leggere sui giornali alcune clamorose falsità. Diciassette anni fa erano scusabili, oggi tradiscono i sintomi della disinformazione consapevole. Ma comprendo il nervosismo di certi colleghi. Se dovesse affermarsi l’idea che noi giornalisti siamo chiamati ad approfondire tutto, anche il contenuto di una condanna definitiva, per molti sarebbe più facile trovarsi un altro impiego. Dico così perché è solo frutto di una concezione impiegatizia della professione la prassi per cui apriamo le virgolette e ci buttiamo dentro tutto quello che esce da una procura o da un Tribunale. E questi giornalisti impiegati, credimi, non potrebbero tollerare la fatica che serve per scalare le montagne dei fascicoli di storie come questa.

Come finisci a occuparti di Erba?
La cronaca nera non mi aveva mai appassionato. Nelle stranezze del processo sulla strage di Erba vengo trascinato da un amico, Felice Manti, che se ne occupa fin dall’inizio per Il Giornale. Lessi il libro che firmava con Edoardo Montolli e rimasi sconvolto. Le confessioni, ascoltate con freddezza, sono un racconto che stentato è dire poco. Frigerio, il sopravvissuto alla strage, riconosceva fin dal primo momento un altro soggetto e non Olindo Romano.

E la macchia di sangue nella macchina dei due sospettati? «Nessuno l’aveva mai vista».
Ci ho messo un po’ prima di avere da Davide Parenti (il papà de Le Iene, ndr) l’ok ad occuparmi della storia, ma intanto lavoravo sulla morte di Davide Rossi e qualcosa succede anche lì (grazie all’inchiesta de Le Iene il Parlamento ha già approvato la seconda commissione parlamentare di inchiesta, ndr). Dopo mesi di studio il primo servizio su Erba va in onda a settembre 2018. Gli atti parlano chiaro. Le sentenze vacillano, se osservate da vicino.

E arrivano i primi attacchi.
Se passa l’idea che il giornalista che verifica gli angoli oscuri di un’inchiesta o di una sentenza (anche se definitiva) è un criminale da mettere all’angolo stiamo messi male. Vigilare sull’esercizio di un potere dello Stato è uno dei diritti-doveri del giornalismo. L’errore del medico finisce in prima pagina, un politico indagato viene massacrato. Vale la stessa cosa per i magistrati, per gli ufficiali di polizia giudiziaria? No, sono intoccabili. Non c’è indignazione, poche interrogazioni parlamentari, controvoglia i dibattiti su un possibile un errore giudiziario. Si fa finta di niente.

Lo scorso gennaio il Riformista ha dimostrato documenti alla mano manipolazioni nelle indagini sulla strage di Alcamo Marina e inerzie incomprensibili fino all’archiviazione. Non è successo niente.
Il caso Gulotta, la giustizia negata alle vittime di Alcamo Marina e ai capri espiatori è una pagina spaventosa, messa in scena con la complicità del circo mediatico giudiziario. Se ne occupò Giulio Golia un po’ di anni fa. Se ci pensi l’istituto della revisione così come oggi arriva solo alla metà degli anni 60 in seguito alla vicenda di Paolo Gallo per la cui morte vengono condannati il fratello e il nipote. Solo che la vittima era viva! A scoprire tutto fu un giornalista siciliano, Enzo Asciolla, che dovremmo ricordare sempre come esempio. Ogni prova, anche quella più solida può e deve essere messa alla prova. Oggi va molto di moda il fact-checking sulle affermazioni dei politici, ma perché non prova nessuno a farlo sulle sentenze?

Nel caso Erba cosa non ha funzionato?
Direi che ha funzionato tutto, fin troppo bene come sempre: si è attivato il circo. Nel 2007, a indagini in corso, la PG e la Procura cominciano a spillare qui e là una serie di informazioni che si sono rivelate false al dibattimento, ma hanno contribuito alla costruzione dei mostri per il tribunale dell’opinione pubblica e chissà forse hanno influenzato anche la giuria popolare. Mentana a Matrix, con i soli atti dell’accusa, imbastisce una fiction che sarà un successo televisivo, ma è zeppa di ricostruzioni errate. E le bugie della prima vengono sistematicamente rispolverate ogni volta che c’è da puntellare le sentenze di merito. Poi a chi importa che al processo un maresciallo dei Carabinieri dica il falso o che un giudice abbia modificato la registrazione audio delle prime dichiarazioni del superstite ribaltandone il senso? A chi importa delle intercettazioni sparite o dei reperti distrutti?

In più qualcuno usa il metodo della delegittimazione preventiva: perché credere a Le Iene?
Per qualcuno è insopportabile il successo della trasmissione. Certo tutti hanno qualcosa da farsi perdonare e noi non facciamo eccezione, ma negli anni in quanti possono vantare lo stesso numero di inchieste in grado di imporsi al centro del dibattito? Imperdonabile, per il nostro gruppo di lavoro, poi, è la capacità di raggiungere le fasce di pubblico più giovane, quello più curioso e reattivo. Quelle fasce che i media tradizionali non riescono a coinvolgere. Ma se te lo ritrovi a fianco, puoi cambiare il mondo.

Come si finisce nel tritacarne giudiziario, c’è uno schema che si ripete?
La pigrizia di certi investigatori e di certi giornalisti è l’elemento ricorrente di queste storie. Ogni errore giudiziario si riflette anche sulla qualità del giornalismo. Gli attacchi a chi vuole verificare come stanno davvero le cose ne è la naturale conseguenza. Sono convinto, ad esempio, che se Azouz Marzouk fosse stato in Italia, anche a centinaia di chilometri da Erba, ci sarebbe lui oggi all’ergastolo: aveva il physique du role perfetto. Ma stava in Tunisia al momento dell’eccidio e quindi le indagini hanno riguardato esclusivamente i due drop-out di questa storia, calcando i tratti dell’antipatia per far accendere il meccanismo dell’odio.

Come finirà questa storia secondo te: si aprirà un processo di revisione?
Si è già accesa la miccia di uno scontro interno alla Procura Generale di Milano. Il capo dell’ufficio potrebbe fermare tutto, ma mi sembrerebbe qualcosa di assurdo. Una inedita, e paradossale, situazione. Spero invece che il rispetto per il profilo e l’anzianità di Cuno Tarfusser, spingano il capo dell’ufficio (Francesca Nanni, ndr) a dare il via libera perché la sua istanza finisca alla Corte d’Appello di Brescia e venga discussa assieme a quella della difesa.

Perché i reperti sono stati distrutti senza alcuna autorizzazione? Qualcuno dovrà spiegare.
Ci ha provato la Procura di Como, ma i responsabili dell’ufficio corpi di reato dello stesso Tribunale si sono contraddetti a vicenda e l’indagine scaturita dalle ispezioni del Ministero è stata archiviata. Forse si aspettavano un’altra confessione, che non c’è stata.